Prima di questo periodo avevo giornate piene di cose da fare, così tante che la mia agenda era fitta di impegni, di fogli e foglietti in cui i doveri venivano prima di qualsiasi altra faccenda o questione di piacere e su cui tiravo una linea mano a mano che li completavo.
Le passeggiate fatte per il solo gusto di passeggiare, gli incontri con gli amici per una birra, seduti al tavolino di un bar, le cene fuori per provare un nuovo ristorante, il piacere dello star seduta su una panchina, sotto il sole, con un libro o un giornale tra le mani, la possibilità di guardare un film al cinema o di trascorrere un fine settimana al mare, di far visita alla mia famiglia tornando per qualche giorno nella cittadina in cui sono cresciuta, non mi erano negate da un decreto, ma dalla vita quotidiana in cui era richiesto correre ed essere il più possibile produttivi, sempre, comunque, subito. Persino l’idea di un pomeriggio passato a preparare un dolce secondo la ricetta di mia nonna o un’oretta spesa per cucinare un piatto di pasta con un sugo più elaborato del solito erano lontanissime da me: mi sarebbe piaciuto, ma erano tutte possibilità che passavano per forza in secondo piano, conclusi tutti quei passaggi lungo la traccia che io stessa avevo disegnato, fino a fare delle mie giornate un Tetris di incombenze, una griglia a cui, al massimo, riuscivo ad aggiungere un mazzetto di fresie o tulipani comprati prima di rientrare a casa, al ritorno dal supermercato.
Oggi il fioraio all’angolo è chiuso, come i cinema e i ristoranti. Il mare, che pure esiste qui a Napoli, e sulla carta pare vicinissimo, sembra appartenere a un universo parallelo, messo di taglio tra la vita che facevo prima e quella che conduco oggi, in entrambi i casi senza rendermene conto. Lo guardo dalla mia finestra, e lascio che rimanga lì dov’è, anche se ne sento la mancanza. Persino ciò che fino a qualche tempo fa mi sarebbe sembrato un problema – una coda negli uffici delle Poste, o al banco del salumiere – suscita in me un po’ di nostalgia e in questo momento, senza sapere quando riprenderà la vita di sempre, non ho più linee da tirare perché non ne conosco la direzione. Non ho la possibilità, ma nemmeno la stringente necessità, di correre da una parte all’altra della città per incastrare tutto. Il tempo è ora sgombro, e in questo vuoto mi sono accorta che per la prima volta dopo tanto tempo ho finalmente spazio per me, per riflettere, e apprezzare tutto quello che davo per scontato.
Eravamo già ricchi e felici e non ce ne siamo accorti? La domanda è forse banale, ma ce la siamo fatta e ce la stiamo facendo tutti. La minore libertà ci sta concedendo di renderci conto di una fortuna che non sapevamo di avere: il potersi chiedere e poi scegliere dove cenare, a quale concerto andare, quale amico incontrare, dove fare jogging e con che andatura, o quale meta sognare e programmare per l’estate. Era tutto così normale da risultare quasi noioso. Dovevamo vedercela, forse, con variabili economiche e temporali, ma era lì, a portata di mano e di pensiero e, per questo motivo, non ci sembrava poi una gran cosa. Pensavamo che la ricchezza e la felicità fossero beni da raggiungere, estremamente materiali e legati a una sorta di ricompensa per gli sforzi fatti. In nome di questo quanti di noi si sono tormentati, arrabbiati, intristiti fino a qualche mese fa, per questioni che oggi ci fanno sorridere e insieme ci danno una misura del tempo sprecato? Diversi anni fa, uno dei miei settimanali preferiti, si apriva con una pagina di domande senza risposta. La mia preferita chiedeva: “Vorreste voltarvi indietro, molto indietro, e urlare alla ragazza che eravate: amalo, maledetta idiota?”. Oggi, pur essendo stata, più o meno consapevolmente, l’idiota che ama, sono tornata a chiedermelo. E anche avere il modo e il tempo di farlo è un privilegio: significa che sono in salute, a differenza di tanti altri.
Per questo motivo, nonostante tutto, dobbiamo essere riconoscenti: siamo a casa nostra, perché ne abbiamo una, e le cose che abbiamo da fare, quelle che per quanto piccole scegliamo di fare o riusciamo a fare comunque, come dedicare tempo alla ricerca di una serie tv che sappia intrattenerci, o la possibilità di mettere nel carrello gli ingredienti per una nuova ricetta con cui misurarci, hanno un nuovo valore e vanno tutte rispettate: sono tutte possibilità che abbiamo anche se a volte prestiamo più facilmente attenzione a quelle che ci sono negate; sono una risorsa, da mettere in campo ora che altre risorse scarseggiano. La resilienza, parola ormai abusata, è questo: la capacità di resistere alla deformazione delle nostre giornate e all’urto traumatico della realtà nella nostra quotidianità, senza spezzare il filo della nostra umanità e fantasia. E la fantasia, come scriveva Saul Bellow, “è una forza della natura”: è grazie a lei che guardiamo al futuro, senza che abbia una data precisa, con un briciolo di speranza, desiderando cose che prima ci sembravano banali e scontate come una tavolata in famiglia o tra amici.
Nel frattempo, siamo. E il trovarci faccia a faccia con l’urgenza di dare un senso al fatto che qualcosa di così piccolo da risultare invisibile agli occhi e di così apparentemente lontano stia stravolgendo la nostra vita, in Italia come in tutto il mondo, ci obbliga a restare ben ancorati al presente e a ripensare la nostra quotidianità. E mentre aspettiamo che la situazione torni alla normalità, continuiamo a chiederci, con molta più convinzione di quanta ne abbiamo mai avuta, “come stai?” da un capo all’altro del Paese, telefonandoci o con un messaggio su WhatsApp, sperando che la risposta sia positiva, e augurandocelo davvero. Ma sappiamo già due cose: la prima è che non lo dimenticheremo questo tempo, e non solo per la paura che in alcuni momenti lo ha contraddistinto, ma per quello che ci ha insegnato. E la seconda è che stiamo già imparando giorno per giorno.
Dice il titolo del romanzo di Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile, e inizio a pensare che quel giorno sia arrivato. È oggi, non domani o tra qualche mese, perché è ora che diamo molto più valore a quanto abbiamo già, senza chiedere chissà quale eccezionale aggiunta, solo il necessario. Gustiamo un cibo pensando molto più del solito non solo a quanto sia buono e a come non sprecarlo, ma anche a chi sta lavorando per permetterci di trovarlo sullo scaffale o a chi non ne ha, vedendo il moltiplicarsi di iniziative di solidarietà in tantissime città italiane, da Milano a Roma a Napoli. Cuciniamo, non più in tutta fretta o solo per sopravvivere, ma con una certa voglia di dargli un senso, di trovarlo nella riuscita di qualcosa di piccolissimo, realizzato con le nostre mani per prenderci cura di noi stessi. Mentre divoriamo un film, un libro o un fumetto o ascoltiamo una canzone, per la prima volta pensiamo a quanto sarebbe stato triste vivere in un mondo senza artisti e senza spettacolo. Del digitale che ci consente di continuare a vederci a distanza ci interessa ora la sostenibilità. E se guardiamo fuori dalla finestra o dal balcone, sorridendo a chi c’è dall’altro lato, ci sentiamo un po’ meno soli di quanto tante volte ci siamo sentiti prima. L’urgenza e l’ideale, che di solito vivono ai poli opposti, trovano una sottile unione nel qui e ora. E forse per questo, grazie a tutto questo, quando sarà tutto finito e dovremo fare i conti con quello che significa ricominciare, sapremo in che direzione andare, senza bisogno di correre, ma per la sola gioia del farlo, del poterlo fare, di nuovo, come fosse la prima volta.