Quel che rimane di Antonio Gramsci nella memoria pubblica, a centotrenta anni dalla sua nascita, è poco più di qualche aforisma decontestualizzato, la famosa fotografia in bianco e nero, qualche breve citazione sui libri di storia delle superiori. La brillantezza del suo pensiero, la vivacità e la tragicità della sua esistenza, vengono spesso appannati dalla volontà di farne un simbolo nazional-popolare dell’universo culturale della sinistra italiana. Nemmeno nelle università italiane gli si dedica quasi mai una maggiore attenzione. Ciò è dovuto soprattutto alla disorganicità della teoria politica e delle analisi culturali di Gramsci, elaborate in forma di appunti occasionali e frammentari nei Quaderni dal carcere, anche a causa del difficile contesto in cui si trovava a studiare e scrivere. Ma questa mancanza di attenzione sembra dipendere in misura maggiore da altri due fattori: da un lato l’ingombrante connotazione politica dell’opera di Gramsci, così legata al Partito Comunista, dall’altro il suo statuto disciplinare incerto – sospeso tra la filosofia politica, lo studio storico, gli studi sui media, la critica della letteratura e della cultura in generale – che la rende difficilmente collocabile nel sistema piuttosto rigido di compartimenti disciplinari che caratterizza, nel bene e nel male, l’università italiana.
Maggiore successo Gramsci l’ha ottenuto nel Regno Unito, negli USA e in Sudamerica. Qui il pensiero del fondatore del PCI ha iniziato a essere impiegato per leggere le questioni etniche e delle minoranze in genere, o persino per spiegare come mai la maggioranza dei membri della working class inglese scegliesse di votare per Margaret Thatcher, nonostante questa sostenesse la conservazione del sistema che li opprimeva. Il pensiero di Gramsci si è liberato dall’imbalsamatura che gli è stata riservata in Italia, eppure è comunque rimasto per lo più sigillato nella bolla accademica. A rimanere nell’ombra, insieme alla sua opera, c’è anche la sua vicenda individuale, segnata nel profondo dai grandi eventi storici della prima metà del Novecento e da sventure personali.
Oltre che dalla povertà, infatti, l’infanzia di Gramsci fu marcata dalla tubercolosi ossea, che intaccò irrimediabilmente il suo sviluppo fisico: crebbe pochissimo in altezza e il suo torso rimase vistosamente segnato da una curvatura innaturale. La malattia segnò tutta la sua vita, causando sia uno stato di salute estremamente cagionevole che un forte disagio emotivo. Per David Forgacs, uno dei suoi maggiori studiosi, insistere su questo aspetto dell’intellettuale sardo non ha niente di pietistico o voyeuristico. Tale disabilità mette in rilievo lo straordinario esempio umano e politico che ci ha offerto con la sua forza di volontà, cui corrisponde simbolicamente la frenetica attività intellettuale negli anni del carcere sotto il regime fascista. Si narra che, nel condannarlo, il PM del processo disse: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Riuscì però soltanto a consegnarlo a un’immensa solitudine e a un’aumentata invalidità fisica, non mentale. Inoltre, è significativo che la sua malformazione sia stata sistematicamente occultata dall’utilizzo esclusivo della celebre foto in primo piano. Questa non solo nasconde la malformazione, ma mostra Gramsci in uno stato di salute del tutto diverso rispetto a quello in cui scrisse i suoi Quaderni e le sue Lettere dal carcere, i suoi testi più noti, e sulle cui edizioni quella foto è quasi sempre riprodotta.
Sarebbe improprio sostenere che ogni altra immagine sia stata maliziosamente cancellata dal PCI e dalle case editrici a esso connesse, ma l’immagine di un leader apparentemente forte e sano deve aver fatto certamente più comodo di quella di un intellettuale disabile e cagionevole. Tanto più che il PCI non aveva proprio un gran rapporto con la devianza o l’anticonformismo rispetto ai modelli politici e culturali tradizionali. Si tratta, infatti, del partito che nel 1952 espulse Pasolini “per indegnità morale e politica”, una perifrasi di allora per condannare la sua omosessualità; e che fece ben poco per ottenere il rilascio dello stesso Gramsci, ormai dissidente, dopo il suo arresto nel 1926; inoltre, sotto la guida diretta di Togliatti, il PCI fece pubblicare i suoi scritti nell’immediato dopoguerra, sopprimendo però quei testi che più mettevano in discussione la linea di partito.
Gramsci rimase in carcere fino al 1934, quando il peggioramento del suo stato di salute a causa della reclusione convinse il regime a concedergli la libertà condizionale. Morì circa tre anni dopo, non vedendo mai né la liberazione né il suo secondo figlio, Giuliano, nato nell’anno in cui fu arrestato. Molti fra gli scritti del periodo carcerario, specialmente le Lettere, sono di carattere personale. Le Lettere ci restituiscono l’autore in tutta la sua fragilità fisica ed emotiva, nel suo dolore per la lontananza dagli affetti, ma quello che più colpisce è la ferma volontà di non rassegnarsi alla sua condizione e di continuare a lavorare al cambiamento sociale e culturale. In una situazione personale e storica che difficilmente oggi riusciamo a immaginare, la prima cosa che Gramsci fece una volta giunto in carcere fu infatti stilare un programma di studio. Ridotto alla prigionia, sapeva che mettersi al lavoro era tutto ciò che poteva fare per se stesso e per gli altri. Pur rendendosi conto di quanto grigio fosse il presente e quanto ancor più lo sarebbe stato il suo futuro e quello dell’intera nazione sotto il regime fascista, in Gramsci non si spense mai, nemmeno in cella, la volontà di comprendere il mondo per poterlo cambiare.
Dei vari aforismi in circolazione, il più rappresentativo in questo senso è quello che recita: “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”, tratto da una lettera dal carcere a suo fratello Carlo, in cui Gramsci scrive: “[…] l’uomo ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui, dalla sua energia, dalla sua volontà, dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli – da non disperare mai più e non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo. Il mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà. Penso, in ogni circostanza, alla ipotesi peggiore, per mettere in movimento tutte le riserve di volontà ed essere in grado di abbattere l’ostacolo. Non mi sono fatto mai illusioni e non ho avuto mai delusioni. Mi sono specialmente sempre armato di una pazienza illimitata, non passiva, inerte, ma animata di perseveranza”.
Da questo estratto emerge la cifra più significativa dell’attitudine intima e politica al tempo stesso di Gramsci. La rinuncia a essere pessimista o ottimista segue la convinzione che la realtà vada osservata in maniera pragmatica se si intende veramente provare a cambiarla. La “pazienza non passiva” di cui parla è l’atteggiamento di chi, consapevole del disastro, non intende né arrendersi alla distruzione né vivere venerando quel poco che rimane fra le macerie. In questo senso, dalla cella del carcere in cui rimase per quasi dieci anni, Gramsci non smise di analizzare i meccanismi del potere e il modo in cui questi penetrano la vita quotidiana, e che erano poi quelli attraverso cui il fascismo aveva costruito il suo ampio consenso popolare. In ciò Gramsci anticipò in una certa misura sia gli studi italiani sulla cultura di massa – Umberto Eco su tutti – che il post-strutturalismo francese. E, nonostante la sua impossibilità materiale di agire, non smise mai di immaginare strategie per ribaltare quella che, nei suoi Quaderni, aveva definito “egemonia”: il dominio della classe capitalista non solo in ambito economico ma anche culturale, attraverso cui essa otteneva il consenso degli strati subalterni.
Una rilettura dei Quaderni e delle Lettere in questa prospettiva oggi sembra particolarmente adatta. In Gramsci, infatti, si può trovare uno stimolo alla ricerca, alla comprensione del mondo che ci circonda, proprio nel momento in cui ci appare più indecifrabile. Nel rifiuto di ciò che non si comprende, nell’ostentazione di fatalismi sprezzanti o nell’abbandono al populismo disfattista possiamo vedere con Gramsci nient’altro che tre modi, tanto diversi quanto uguali nei risultati, per consolidare quelle dinamiche che ci hanno portato dove siamo e che dovremmo prenderci la responsabilità di cambiare.