Di fronte ai problemi della vita ci sono soltanto due opzioni: affrontarli o nascondersi. Eppure, la seconda opzione ha più sfumature di quante possiamo immaginare. L’evitamento infatti può avvenire in svariati modi: c’è chi allevia i patemi attraverso sostanze o diversivi di ogni tipo, chi ha bisogno di distrarsi svolgendo altre attività facendo finta che il problema non esista, chi tende a rimandare qualunque azione affidandosi alla procrastinazione e così via, senza limiti alla creatività. Io stesso in alcune situazioni di stress so di mettere in atto queste strategie di sopravvivenza: tutto si spegne, per un po’ non esisto, al risveglio il problema però non è scomparso, la natura da struzzo che mette la testa sotto la sabbia mi accompagna da sempre. E a quanto pare non sono l’unico. È sempre più in crescita l’uso del sonno come scappatoia quando la realtà ci risulta insostenibile. Spesso è il sintomo di disturbi come depressione o ansia: un atto di rifiuto della società che ci circonda. A tal proposito, qualche mese fa ho letto un romanzo che sembra essere il manifesto perfetto per noi struzzi: Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh, libro che mi ha scosso profondamente perché trasforma la via di fuga del sonno in una sorta di ibernazione: dormire mentre tutto il mondo va avanti, e lasciare che siano gli altri a portarsi addosso il peso della vita.
Pubblicato negli Stati Uniti nel 2018 e uscito in Italia nel 2019 – ma esploso da noi soprattutto nell’ultimo anno un po’ grazie al passaparola tra entusiasti e ipercritici, che comunque hanno suscitato curiosità rispetto a questo libro – Il mio anno di riposo e oblio parla di una giovane donna benestante, di bell’aspetto, colta e con un appartamento a Manhattan, che capisce di non riuscire più a reggere l’angoscia quotidiana, decidendo quindi di dormire. Parecchio. La descrizione della protagonista è importante per capire anche il “privilegio” di questa scelta. Essendo benestante può infatti permettersi di scappare dal mondo, anche in una società dove il capitalismo controlla anche il sonno. La vicenda è ambientata tra il 2000 e il 2001 e lei sembra una giovane Carrie Bradshaw, con scarpe costose, raffinate riflessioni sulla moda newyorkese e tutto quel sottobosco alla Sex and the city che ha influenzato parecchie donne in quel periodo – e forse ancora oggi. Il fatto di essere particolarmente bella, ricca e colta la pone in una situazione almeno teoricamente di vantaggio: la sua migliore amica per esempio è invidiosa della sua magrezza, i maschi la desiderano e i suoi studi le permettono di lavorare in una galleria d’arte contemporanea, quello che per molti apparirebbe come il lavoro dei sogni. In teoria dall’esterno tutti potrebbero vederla come una ragazza fortunata, con il mondo in mano. In realtà, però, ha perso nel giro di poco tempo il padre per una malattia e la madre per suicidio, senza riuscire a risolvere in tempo il suo rapporto con loro. Inoltre, sfata il mito dei soldi che “fanno la felicità” o della bellezza che aiuta nelle relazioni e nel lavoro: lei si considera un guscio svuotato di qualsiasi tessuto vitale, il denaro e il corpo per lei non contano nulla e vuole solo fuggire dagli altri e da se stessa.
Per farlo si affida dunque a una psichiatra abbastanza sui generis, un misto tra una dottoressa e una sciamana che non sembra aver alcun interesse per lei. Ma non le importa: a lei servono solo i farmaci per dormire. Come a parecchie persone nel mondo reale, visto che è in grandissimo aumento il fenomeno degli psicofarmaci usati dai più giovani senza prescrizione medica, quindi ottenuti tramite il mercato nero, o presi con “ricette facili” spesso consegnate da medici di base un po’ troppo superficiali. La protagonista del romanzo ne prova diversi, trova il più potente e si accorge che la stordisce a tal punto da farla crollare in uno stato quasi comatoso, per poi non ricordare più nulla al risveglio. Eppure il Terzo Millennio è l’era in cui tutto, anche il sonno, deve essere esposto.
Contatta quindi un artista della galleria d’arte per cui lavora e si mettono d’accordo per rendere quelle infinite dormite delle installazioni d’arte moderna. Lui può filmarla, modificarne l’aspetto, giocare con il suo corpo dormiente per scandalizzare il pubblico. I quindici minuti di celebrità del Novecento si sono trasformati nel secolo successivo nella ricerca della celebrità eterna, nella presenza tangibile anche nell’assenza, ovvero il vuoto del sonno. Perché “gli altri” devono sapere, e la via di fuga senza una traccia, una documentazione, è soltanto fine a se stessa. Non a caso anche nella realtà abbiamo assistito a esperimenti artistici del genere. Nel 2013 una folla di visitatori si è radunata al MoMa per guardare l’attrice Tilda Swinton dormire in una teca di vetro. La performance, ideata dall’artista Cornelia Parker, non consisteva in altro, “solo” una persona famosa addormentata e migliaia di curiosi a spiarla.
Così la protagonista – che non ha un nome forse proprio per spersonalizzarla ancora di più – dorme per interi giorni, al risveglio beve dei caffè con panna, guarda dei vecchi film con Whoopi Goldberg, prende altre pillole e il loop continua. Soltanto la sua migliore amica è la variabile impazzita del piano, quando si presenta a casa e durante i suoi risvegli la costringe infatti a essere viva. Eppure lei non vuole farla finita, non vuole seguire le orme della madre. Qui Moshfegh è impeccabile nel descrivere la tendenza a “lasciarsi vivere” come contrapposizione al “lasciarsi morire”. In una società che ti impone di essere produttivo, di spendere e consumare, di stare al passo con i tempi, la ribellione è impedire che ciò accada. La protagonista regala dunque vestiti di lusso all’amica, taglia la carta di credito, nasconde il telefono e si stacca dal mondo, ovvero una New York schiava dei suoi stessi vezzi e metafora della società contemporanea: il trionfo dell’apparenza, l’individualismo sfrenato, le sportellate per trovare il proprio posto a scapito del prossimo. Ho ritrovato in questi passaggi una critica al fatto che viviamo in un’epoca in cui la stessa felicità è sempre considerata come un traguardo individuale e non collettivo. Anche nel romanzo, come spesso nella nostra vita, ciascuno pensa esclusivamente a sé a costo di apparire insopportabile agli occhi degli altri, in questo caso del lettore. Ed è credibile proprio perché reale, tangibile, sono queste le dinamiche che dominano nella nostra epoca.
Personalmente non sono riuscito a dare un valore specifico all’opera dal punto di vista letterario. Nonostante sia un libro scritto bene non posso definirlo propriamente un capolavoro. Eppure mi ha turbato, ha smosso qualcosa in me che ho voluto analizzare. Alla fine sono giunto alla conclusione che la potenza del romanzo risieda nella sua miserabile sincerità (e non vedo l’ora di scoprire cosa si inventerà il regista Yorgos Lanthimos con la sua trasposizione cinematografica). Il sonno come ibernazione non è altro che la metafora di una vita insostenibile che può essere affrontata solo scomparendo, smettendo letteralmente di “esserci”. Riflettendoci cristallizza abbastanza bene l’ultimo ventennio, così come ha fatto American Psycho di Bret Easton Ellis per gli anni ‘80 o, andando ancora più indietro, Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald per gli anni ‘20 del Novecento. Forse non è un caso che tutti e tre i libri parlino di personaggi ricchissimi e alla deriva, soli e disfunzionali nel contesto circostante. È la crisi perpetua dell’Occidente vista dai piani alti, dai palazzi dorati che crollano sotto il peso dei problemi che ogni epoca è costretta ad affrontare – per gli individui e per le masse. Con la differenza che la maggior parte di noi non si può permettere il sonno descritto da Moshfegh, anche quando vorrebbe. Se invece la percepiamo come una sorta di distopia il messaggio è chiaro: la vita va avanti anche senza di noi.
Quando la protagonista termina il suo anno sabbatico caratterizzato dal sonno-ibernazione, si rende conto che la sua assenza non ha modificato il mondo in alcun modo. E che no, il battito d’ali di una farfalla non provoca un uragano dall’altra parte del mondo, e noi – in quanto individui – siamo irrilevanti nell’immensità del pianeta. Moshfegh gioca sulla trasfigurazione del “tempo perduto”, che non è quello proustiano, ma un insieme di treni che non torneranno più. E i treni possono essere momenti, persone, luoghi, opportunità. Nascondersi può essere un’esigenza, ma non un rimedio. Traslando il pensiero, come non lo è il sonno non lo è nemmeno qualsiasi altra via di fuga. Se però ricorriamo sempre di più allo stordimento o all’annullamento (più o meno momentaneo) di noi stessi, è perché “lasciarci vivere” è un gesto più comodo che vivere in sé. Ci deresponsabilizza, ci culla e ci protegge. Eppure, come ci mostra il romanzo di Moshfegh, la vita vera inizia quando riapriamo gli occhi, quando ci sentiamo magari vulnerabili, sperduti, ma fuori dal letargo siamo costretti ad affrontare la realtà che ci circonda.