L’anarchia è libertà ed eguaglianza, dall’antimilitarismo di De André all’insurrezionalismo armato - THE VISION

Se c’è una cosa tra le tante che ha contraddistinto la musica di Fabrizio De André è stata la capacità di raccontare la dimensione sia pubblica che privata della sofferenza. Le sue canzoni rispecchiavano un animo sempre teso fra un rigore morale inflessibile e un modo lieve e dolente di compatire il prossimo. Marinella, bocca di rosa, il soldato Piero e tutti gli altri personaggi che hanno popolato le sue canzoni non sono soltanto individui tragici, ma vittime di una rete più ampia di rapporti di potere e sopraffazione che il cantautore genovese ha sempre saputo raccontare attraverso le piccole storie di chi moriva solo, offeso, dimenticato.

De André si ascolta, ma ogni tanto sembra di rivederlo nei tratti dei sottoproletari urbani, dei tossicodipendenti o delle sex worker sfruttate, coloro che per primo ebbe il coraggio di chiamare pubblicamente “drogati” e “puttane” senza dare a questi termini un’accezione morale negativa, dedicandogli opere d’arte e dandogli voce, sfidando il disprezzo borghese nel quale egli stesso crebbe, appartenendo a una famiglia altolocata di cui sempre denunciò l’ipocrisia. Ma De André ridiede voce anche ai cadaveri disseminati sulle strade dalle guerre: a Piero, il soldato che in un moto di pietà verso un militare nemico non osa sparargli, venendo ucciso proprio da quello stesso uomo a cui ha risparmiato la vita; al corpo del protagonista della “Ballata dell’eroe”, reinterpretata anche da Luigi Tenco – il suo “amico fragile” – che parla dell’insensatezza della guerra che distribuisce medaglie ai morti; o, ancora, in “Girotondo”, canzone apparentemente allegra in cui il cantautore dialoga con un coro di bambini che hanno ereditato la Terra, distrutta però dalle bombe e dai carri armati. I bambini si chiedono chi li possa salvare, chi possa rimettere in sesto un mondo dove non c’è più spazio per giocare: “La guerra è dappertutto, Marcondiro’ndera / la Terra è tutta un lutto, chi la consolerà?”. Ai bambini, sul finire della composizione, non resta che giocare alla guerra, epilogo inquietante che rivela la corruzione dell’innocenza da parte della società.

La guerra, come prodotto della sopraffazione di chi detiene il potere su chi lo subisce, è uno dei temi fondamentali dell’opera di De André. Questo tema è intrinsecamente legato alla sua militanza politica, costante e indefessa, mai servile a un partito o a un’ideologia, ma fu anzi il rifiuto sistematico del potere di uno Stato che opprimeva il dissenso con la violenza. In ogni sua intervista o concerto emergeva il tema dell’anarchia: a volte dai testi, altre volte da dichiarazioni radicali. L’anarchismo era per lui una categoria dello spirito, un richiamo così viscerale verso gli sconfitti da ricondurlo al suo stesso corpo: “Ho cercato di analizzare il motivo per cui quando facevo le medie mi ero schierato dalla parte dei troiani piuttosto che da quella degli achei, che erano i vincitori. Credo che siano fenomeni addirittura genetici, non riesco a spiegarmi esattamente il perché”, disse a un giornalista.

Anarchia, a differenza di quel che alcuni pensano, non significa “disordine” o “caos”. L’immagine che vuole rappresentare questa corrente di pensiero come mero vandalismo è un enorme fraintendimento. “L’anarchia è ordine senza potere”, diceva il pensatore francese Pierre-Joseph Proudhon, primo a definirsi anarchico. Essere anarchici significa riconoscere a ogni individuo la libertà negata alla maggioranza per il privilegio di pochi, credere che l’unica società veramente giusta sia quella dove la vita non è regolata da rapporti di potere gerarchici, ma dall’autonomia e dall’adesione volontaria di ciascuno a un progetto condiviso, nel rispetto reciproco dei diritti e nell’adempimento dei propri doveri.

“Per sapere gestire il potere,” diceva De André, “bisogna in primo luogo riconoscere che i propri simili sono simili davvero”. Libertà ed eguaglianza sono infatti i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti anarchici. Non si tratta del liberalismo borghese che conia il motto “la mia libertà finisce dove inizia la tua”, ma di una libertà dell’individuo che viene confermata da quella altrui, l’estremo rispetto dell’individualità e dell’autodeterminazione, che porta a rifiutare qualsiasi tipo di gerarchia. Il tratto che differenzia maggiormente l’anarchismo dal comunismo o dal socialismo è poi la concordanza tra fini e mezzi: l’anarchismo non ammette una dittatura del proletariato né una burocrazia di partito come mezzo per ottenere una società di eguali. Il fine è il potenziamento della libertà di tutti e si deve compiere a partire dalle prime fasi del processo, attraverso una pratica quotidiana orientata alla solidarietà, alla cooperazione e all’azione collettiva.

Nonostante questi elementi comuni, il movimento anarchico è però molto sfaccettato, difficilmente unificabile in uno schema unico. La teorizzazione di un’ideologia anarchica risale alla prima metà dell’Ottocento, con l’opera del filosofo inglese William Godwin, che partendo da una critica alla rivoluzione francese e ai metodi violenti che la contraddistinsero, affermò che solo la ragione poteva portare l’uomo a un reale cambiamento interiore, guidandolo verso i principi di giustizia e libertà. “Ciascuno è abbastanza saggio da governarsi da solo”, scriveva infatti. Tra gli autori dei classici dell’anarchismo spiccano poi Michail Bakunin, principale esponente dell’anarchismo sociale collettivista, che vede la libertà individuale interconnessa all’aiuto reciproco e alla cooperazione; e Max Stirner, capostipite dell’anarco-individualismo, che mette al centro la volontà individuale rispetto a quella imposta dal gruppo sociale. Pëtr Alekseevič Kropotkin è stato invece uno dei primi sostenitori dell’anarco-comunismo, che sostiene l’abolizione della proprietà statale e privata dei mezzi di produzione e immagina al suo posto la proprietà collettiva. Kropotkin è inoltre un rappresentante della corrente libertaria, di cui fece parte anche l’anarchico italiano Errico Malatesta, che fu protagonista di diverse insurrezioni e venne più volte incarcerato per associazione sovversiva, trascorrendo gran parte della sua vita in carcere o in esilio.

Mikhail Bakunin, 1860

Come Kropotkin, Malatesta credeva, già nel 1916, in una rivoluzione anarchica imminente, che si sarebbe opposta alle sopraffazioni del potere. Questa si verificò invece solo più tardi, nel 1936, durante le prime fasi della guerra civile spagnola, che venne duramente repressa. “La rivoluzione anarchica che travolse una buona parte della Spagna nel 1936 fu molto significativa. Sufficientemente per sfidare la collera di ogni grande sistema di potere: stalinismo, fascismo, liberalismo occidentale, la maggior parte delle correnti intellettuali e le loro istituzioni dottrinali – tutte unite per condannare e distruggere la rivoluzione anarchica, come del resto fecero; un segno significativo, a mia opinione,” ha detto il linguista e filosofo Noam Chomsky – tra gli esponenti più significativi dell’anarchismo internazionale contemporaneo – mettendo l’accento sulla violenza con cui i poteri di ogni colore, sentendosi minacciati da un progetto che aspirava a una società equa senza sopraffazioni, hanno represso i tentativi rivoluzionari anarchici.

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Noam Chomsky

Questi tentativi rappresentano un elemento importante per definire il ruolo politico e storico dell’anarchismo negli ultimi due secoli. La reazione concreta alle ingiustizie non è infatti esclusivamente ascrivibile alla corrente insurrezionalista – caratterizzata dall’utilizzo di atti di ribellione violenta, talvolta di stampo terroristico, sia individuali che collettivi, per ottenere l’abbattimento dello Stato; è invece uno degli aspetti più trasversali a molte delle correnti anarchiche che promuovono un modello di società dove il potere statale – qualsiasi forma prenda – viene sostituito dalla collaborazione fra esseri umani considerati pari, non solo in teoria. Non siamo quindi distanti dall’anarchismo libertario e antimilitarista di De André. L’opposizione alla guerra non è che il rifiuto del potere mastodontico degli Stati che si comportano da tiranni, facendo pagare ai civili il prezzo della vita in nome di mire espansionistiche ed economiche volte a rafforzare il potere stesso. “Nessun individuo può riconoscere la sua propria umanità né per conseguenza realizzarla nella sua vita, se non riconoscendola negli altri e cooperando alla sua realizzazione per gli altri. Nessun uomo può emanciparsi altrimenti che emancipando con lui tutti gli uomini che lo circondano”, diceva Bakunin, e ancora: “M’importa molto ciò che sono tutti gli altri uomini, perché per quanto indipendente io sembri o mi creda per la mia posizione sociale, fossi pure Papa o Zar, Imperatore o anche primo ministro, io sono incessantemente il prodotto di ciò che sono gli ultimi tra loro: sé essi sono ignoranti, miserabili, schiavi, la mia esistenza è determinata dalla loro schiavitù”.

De André raccontava che dopo i concerti avrebbe voluto dire ai presenti che tutto quello che avevano ascoltato era assolutamente falso, ma che invece erano assolutamente veri gli ideali e i sentimenti che lo avevano portato a scrivere e cantare quelle cose. “Con gli ideali e con i sentimenti si costruiscono delle realtà sognate. La realtà, quella vera, è quella che ci aspetta fuori dalle porte del teatro. E per modificarla, se vogliamo modificarla, c’è bisogno di gesti concreti, reali”. Il suo insegnamento, oggi, è ancora in grado di parlarci. L’anarchismo libertario di cui si fece portavoce racchiude infatti un messaggio potente e rivoluzionario che in questi tempi di crisi, dove ogni certezza sembra sfaldarsi, sarebbe importante recuperare.

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