Non è sufficiente guardare una volta This is America, video dell’ultimo singolo di Childish Gambino, uscito il 5 maggio, per coglierne tutti i riferimenti. Perché quello di Donald Glover non si limita a essere una clip musicale, ma diventa un discorso sullo stato dell’Unione, o perlomeno di quella che – sulla carta – dovrebbe esserne una parte. Un discorso la cui iconografia va dall’ambito biblico alle caricature razziali, dai video virali ai riferimenti alle sparatorie che sconvolgono, perentorie, gli animi dei benpensanti oltreoceano. Per circa un paio di giorni, almeno. Poi si torna ad affondare il volto in un touchscreen e a perdersi nel rumore bianco di Internet.
Un giro turistico a cui difficilmente avremmo voluto prendere parte, in un capannone bianco e sterile, ambientazione in cui alcuni hanno riconosciuto l’habitat sociale entro cui gli afroamericani provano faticosamente a muoversi, cercando un proprio spazio di esistenza, ma restando sempre e comunque sotto la magnanima ala dello zio Sam. Uno spazio in cui Glover si dimena in modo caricaturale, monito vivente del minstrel show ottocentesco del Jump Jim Crow che distrae da ciò che accade sullo sfondo, dove tirare fuori una pistola è un attimo, e dove il passaggio da una melodia gioiosa e corale a una base pestata e inquietante avviene in una manciata di secondi.
L’America di Childish Gambino è distratta, si perde in clip virali mentre Ferguson e Baltimora insorgono contro la police brutality. È l’America dei giovani afroamericani che credono in una falsa promessa di uguaglianza, salvo poi sbattere la faccia contro il muro non appena smettono di ballare l’ultima coreografia di tendenza. È l’America di Stephon Clark, ventiduenne ucciso dalla polizia lo scorso 18 marzo a Sacramento, dopo che il suo telefono è stato scambiato per un’arma da fuoco. It’s a telly, it’s a tool, scandisce Gambino, con voce quasi esterrefatta. Perché, sì, questa è l’America che non si vede mentre si rimane inglobati in onanismi narcisistici. E solo uno sparo riesce per un attimo a cogliere l’attenzione di tutti e a ricordare quanto sia fantastica e ridicola questa storia dell’America post-razziale.
Gli Stati Uniti di Donald Glover sono un Paese in cui gli afroamericani devono tuttora ridursi a caricature di se stessi, rivisitazioni di Jim Crow in chiave post moderna, dai movimenti bruschi, che rasentano gli spasmi, gli occhi sbarrati e il sorriso parossistico, per poter essere accettati in un Paese che tuttora vuole contenerli in un ruolo clinicamente circoscritto, prevedibile e proprio per questo facilmente manovrabile. Un Paese che glorifica l’uso delle armi e ne sanziona senza troppi problemi l’uso liberale, talmente assuefatto dalla marea di contenuti rigurgitati ogni giorno dai media da non riuscire nemmeno ad accorgersi di un malessere sociale che si perpetua in sordina. Fino alla catastrofe periodica, come la sparatoria di Charleston del luglio 2015, quando Dylann Roof ha aperto il fuoco in una chiesa nera, uccidendo nove persone e ferendone una. Nel video quegli spari tornano a prendere vita, sono diretti verso il coro che con i suoi intermezzi spezza la tetraggine delle barre di Gambino. Ma tirare fuori un’arma è una questione di pochi secondi, ammazzare nove individui ancora meno.
E così nell’America di Childish Gambino il secondo emendamento diventa imperativo morale, le armi da fuoco diventano feticcio, mentre le vite dei civili, specie se afroamericani, si limitano a essere spiacevoli inconvenienti. Le pistole accuratamente riposte in panni di velluto rosso, i corpi a terra portati via di corsa, senza nemmeno dare il tempo di accorgersi di quanto successo.
Tutto questo nel video è però un sottotesto, è quello di cui ti accorgi alla seconda, terza visione, perché in primo piano rimangono le mosse viral alternate a danze tradizionali della cultura nera, saltando dallo shoot al ballo sudafricano Gwara Gwara. Dietro gli occhi sbarrati di Donald Glover, dietro il gruppo di ragazzini che lo accompagna ballando, c’è un mondo in disgregazione: macchine che vengono incendiate – chiaro riferimento ai riots di Baltimora e Ferguson – uomini che corrono da un lato all’altro del capannone, mentre uno si butta dalla finestra nella più totale indifferenza – un monito del dilagare di malattie mentali nella comunità afroamericana, che va avanti nella quasi assoluta indifferenza dello Stato.
La presentazione di Gambino trasuda ironia sprezzante, è sbattuta in faccia a chi la guarda con tutta la violenza necessaria a far cogliere i diversi livelli di lettura. Un richiamo alla sorprendente inventiva con cui il popolo afroamericano è sistematicamente oppresso, da una polizia sempre più militarizzata, da un sistema carcerario che ne fagocita le speranze di effettiva emancipazione, da un sogno americano che mai l’ha contemplato, e dalla stessa comunità nera, che troppo spesso finisce per introiettare il ruolo del menestrello obbediente. Tra le coreografie, tra gli spari, tra i rimandi all’apocalisse, si colgono anche i riferimenti a tutti quei modi in cui la cultura nera si arrende all’autostereotipizzazione, con i testi vacui del rap meno impegnato e le blande aspirazioni. Lo stesso Childish Gambino se ne è reso conto, ed esasperato si rifiuta di continuare a essere qui per la vostra libera fruizione, per seguire il copione dell’entertainer nero.
Questa è l’America di Donald Glover: l’America di Trayvon Martin, degli otto spari che hanno colpito Stephon Clark, sei dei quali alla schiena. È quel Paese in cui le forze dell’ordine proteggono e servono (“to protect and serve”) solo un’esigua percentuale di privilegiati, finendo spesso a terrorizzare ciò che resta della popolazione. È quel luogo in cui la pratica dello stop and frisk finisce per diventare umiliazione e mortificazione metodica. Un perenne Luogo Sommerso, le cui pareti sono rese scivolose da continue intimidazioni, illusioni di una pari cittadinanza e simulacri di diritti civili. Quel luogo da cui diventa impossibile uscire, perché esiste un sistema che ti assorda fino a farti credere che stare lì per te non sia poi così male, che fa sì che gli afroamericani finiscano a loro volta per vedersi attraverso la lente del razzismo – cittadini di serie b per qualche caratteristica innata, più che a causa un ecosistema politico e sociale votato all’immobilismo.
L’America di Donald Glover è l’America del massacro di Parkland, di Orlando, dell’indifferenza che ha fatto eco a Charlottesville. Di armi vendute all’ingrosso e di neri che affollano le carceri private per reati spesso di piccola entità, delle strade dimenticate di Detroit, dei rally neonazisti in Georgia. Quel sogno americano selettivo costruito sulle spalle dei neri, come scriveva James Baldwin; che ha costruito il ruolo dell’American Negro così da avere una precisa casella di categorizzazione, in cui far soffocare la parte più scomoda della popolazione.
Questo vorrebbe far vedere Childish Gambino, se per una volta ci fosse la volontà di ascoltare. Sputando sullo stesso concetto di superamento della razza, delle pari opportunità tra neri e bianchi, sulla mera valenza simbolica del primo presidente nero – l’ennesimo, patetico, premio di consolazione.