Alejandro Jodorowsky è un artista inesauribile. Attore, regista, scrittore, disegnatore, lettore di tarocchi, la sua vita è paragonabile a una performance artistica lunga e intensa come la sua esistenza, di cui inscena un capitolo ogni giorno in maniera eclettica e sempre diversa. Jodorowsky nasce a Tocopilla, in Cile, nel 1929, figlio di un commerciante e di una cantante di origini ebraico-ucraine, costretti a fuggire in Sudamerica per sottrarsi ai pogrom. Come ha raccontato nei suoi libri, nelle sceneggiature dei suoi film più recenti e come ha dichiarato più volte nelle interviste, il grande trauma della sua infanzia è stata la figura autoritaria del padre, Jaime, ex trapezista di un circo itinerante che una volta sposato, scelse una vita borghese, arida di immaginazione e di empatia verso il prossimo. Il piccolo Jodorowsky lo chiamava “Stalin”: “Mio padre era un ateo, assente. Era un venditore; io avevo quattro anni quando mi disse che la fine della vita era la morte. Non c’è una cura metafisica che possa aiutare a lenire questa angoscia, fu da quel momento che iniziai a cercare un senso alla mia vita”.
Quando si trasferisce con la famiglia a Santiago del Cile, a causa del lavoro del padre, il giovane Jodorowsky scopre la poesia: “La poesia operò un cambiamento fondamentale nel mio modo di agire. Smisi di vedere il mondo attraverso gli occhi di mio padre,” scrive nel libro autobiografico La danza della realtà, “Mi era consentito tentare di essere me stesso”. Un vero e proprio atto di ribellione, perché Jaime disprezza qualsiasi forma d’espressione artistica, per lui gli artisti “erano soltanto buffoni spregevoli, parassiti della società, narcisisti perversi, morti di fame”. L’arte ben presto si rivela essere la chiave che consente al giovane di evadere da un mondo machista che gli impone di essere virile, spietato negli affari, senza paura, ma soprattutto senza sentimenti. A Santiago, poi, Jodorowsky conosce la recitazione e la magia del teatro, acquisita la consapevolezza che solo l’immaginazione può salvarlo dalle trame di una famiglia asfissiante e da un mondo bigotto e brutale che non gli risparmia nemmeno le barbarie dell’antisemitismo: “Sentendomi a disagio con me stesso, avevo deciso di rifugiarmi nell’intelletto”, scrive sempre ne La danza della realtà. “Vivevo rinchiuso all’interno del mio cranio, levitando a qualche metro d’altezza da un decapitato che mi era estraneo”.
Nel 1953, Alejandro, senza un soldo in tasca lascia il Cile e si trasferisce a Parigi dove diventa allievo e assistente del mimo Marcel Marceau, per il quale nel 1959 scrive la celebre performance The mask maker. Nella capitale francese, “Jodo” – come lo chiamano affettuosamente i suoi estimatori – conduce una vita da bohémien, da artista squattrinato ma entusiasta delle sue creazioni e degli incontri che ha l’occasione di vivere. Frequenta il movimento surrealista e nel 1960, conosce due spiriti anarchici e geniali come lui: il poeta spagnolo Fernando Arrabal e il disegnatore franco-polacco Roland Topor. Da questo sodalizio sorge nel 1962 il movimento di ispirazione post-surrealista dal nome Movimento Panico. Il manifesto del Movimento viene scritto proprio da Jodorowsky nel 1965 che lo intitola “Verso l’effimero panico”, una dichiarazione di emancipazione dal teatro classico e dalle sue regole. Quando Andrè Breton, il teorico del surrealismo, si accorge del lavoro dei tre artisti, il Movimento Panico raggiunge in breve tempo la notorietà utile a far conoscere le loro opere in tutta Europa e nel resto del mondo.
Jodorowsky, agli inizi degli anni Sessanta è quindi in un momento molto prolifico della sua carriera e siccome riscuote un crescente credito, decide di fondare una casa di produzione cinematografica Producciones Panicas, grazie alla quale realizza il suo primo film: Fando y lis. Il successo internazionale e la fama, però, arrivano nel 1972 quando al festival di Cannes viene proiettato il suo secondo film El topo, un western mistico ambientato in Messico. Jodorowsky interpreta il protagonista, un cavaliere errante in cerca del Santo Graal, che deve liberare un villaggio da quattro pistoleros. Mescolando atmosfere alla Luis Buñuel e alla Sergio Leone, la pellicola si snoda fra una serie interminabile di episodi dove si avvicendano esseri umani perversi e ripugnanti. Una didascalia spiega che “topo” in spagnolo significa talpa, un animale che scava le sue gallerie nel buio e quando arriva alla luce diventa cieco.
El topo entra a far parte della controcultura nordamericana negli anni della contestazione e tra i tanti estimatori ci sono anche John Lennon e Yoko Ono. Lennon si innamora del lavoro del regista cileno al punto da assicurargli i fondi per la realizzazione del terzo film, La montagna sacra, nel 1973, in cui la conquista del Messico è rappresentata con camaleonti vestiti da aztechi e rospi che giocano a fare i conquistadores. L’exploit ottenuto con i suoi primi film, apre a Jodorowsky le porte del pantheon del cinema internazionale d’autore, tanto che a metà degli anni Settanta tenta di dirigere quello che passerà alla storia come il più grande film non realizzato: Dune. Dune è basato sul romanzo fantascientifico dello scrittore americano Frank Herbert, pubblicato nel 1965. L’unico produttore che sembra credere a questo progetto mastodontico, data la quantità di scenari, mondi e episodi da realizzare, è Michel Seydoux con il quale, solo in fase di progettazione, stimano un costo pari a venti milioni di dollari dell’epoca. Se si pensa agli artisti che Jodorowsky voleva coinvolgere, Dune è la più grande occasione persa del mondo del cinema: i musicisti Pink Floyd, Tangerine Dream, Sun Ra e i disegnatori H.R. Giger, Chris Foss e Moebius. Non sono da meno i nomi celebri pensati per il cast: Mick Jagger, Geraldine Chaplin, Orson Welles nel ruolo del barone Harkonnen, e Salvador Dalì nella parte dell’Imperatore dell’Universo. Tutti i nomi coinvolti accettano, ma il progetto naufraga per mancanza di fondi e perché i produttori americani non vedono di buon occhio questo eccentrico regista cileno, privando il mondo dell’incredibile occasione di ammirare tutti questi immensi artisti lavorare insieme.
Alejandro Jodorowsky non si è espresso solo tramite il cinema, il fumetto e il teatro, molta della sua notorietà l’ha ottenuta anche con i libri, in particolar modo con quelli in cui spiega gli effetti benefici della Psicomagia: una forma d’arte da lui inventata che ha come fine la guarigione dello spirito. L’atto psicomagico ha una valenza catartica e liberatoria rispetto ai pesi emotivi che imbrigliano la donna e l’uomo e nasce dalla profonda esperienza che il regista ha acquisito negli ambienti esoterici sia sudamericani che europei. Jodorowsky sintetizza il suo metodo con queste parole nel libro omonimo: “La Psicomagia si basa sostanzialmente sul fatto che l’inconscio accetta il simbolo e la metafora, dando loro la stessa importanza che darebbe a un fatto reale. I maghi e gli sciamani delle culture più antiche lo sapevano bene. Per l’inconscio, intervenire su una fotografia, una tomba, un capo d’abbigliamento o qualsiasi oggetto personale (un dettaglio può simboleggiare il tutto) equivale a intervenire sulla persona in carne e ossa. Una volta che l’inconscio decide che qualcosa deve succedere, per l’individuo è impossibile inibire tale pulsione oppure sublimarla completamente. Quando hai scoccato la freccia, non puoi farla ritornare all’arco: l’unico modo per liberarsi della pulsione è realizzarla”.
Negli anni, la produzione artistica di Alejandro Jodorowsky non si è mai arrestata. Ha vissuto momenti di successo e di insuccesso, ma “Jodo” non ha mai smesso di produrre arte e di comunicare con il suo pubblico. Oggi ha 90 anni, vive a Parigi, dove non è difficile incontrarlo nel bar Le Temeraire e dove, spesso, si presta ancora a leggere i tarocchi. Continua a girare film, rimane incrollabile il suo desiderio di produrre arte e cambiare la grammatica del cinema: è intento ad ultimare la trilogia basata sulla sua autobiografia – dopo La danza della realtà e Poesia senza fine, entrambi interpretati dai suoi figli – girerà Viaje Essential e poi il film sulla sua arte magica Psychomagie, un art qui guérit. “Io voglio realizzare l’impossibile. Io voglio rivoluzionare il cinema prima di morire”, dice senza modestia, come è giusto che faccia un vero artista.