Dieci anni fa moriva la poetessa milanese Alda Merini, una donna che ha attraversato il Novecento subendo tutte le umiliazioni che quel secolo ancora imponeva a chi soffriva di disturbi mentali. Merini patì in questo senso un doppio calvario, colpevole di essere malata di mente e per di più donna. Nonostante tutto, però, “la poetessa dei Navigli” elaborò la sua esperienza drammatica riuscendo a elevare le sue sofferenze al livello dell’arte grazie alla poesia.
Merini nacque a Milano nel 1931. Il padre, un uomo colto appartenente a una famiglia nobile di Como e che lavorava come impiegato, la iniziò alla letteratura; mentre la madre, casalinga, descritta come bellissima e fieramente fascista, non incoraggiò in alcun modo la propensione allo studio della giovane scrittrice, desiderando per lei unicamente un futuro da moglie devota ai figli e al marito, come il suo. “Il fascismo era entrato a gran voce dentro la mia casa. Le parole Donna-Amore-Patria avevano trovato in mia madre un terreno fertile”, ricorda Merini nell’autobiografia Reato di vita. La poetessa, nel libro La pazza della porta accanto, racconta poi che anche il padre, dopo la guerra, cambiò bruscamente atteggiamento ritenendo di non doverla più incoraggiare a seguire una strada dalle misere prospettive lavorative. Così, malgrado Merini raccogliesse già dalla più giovane età attestazioni di stima da parte di illustri critici e letterati, come Angelo Romanò e Giacinto Spagnoletti, la famiglia le impedì di seguire la sua naturale inclinazione.
La madre le proibiva di leggere i libri della biblioteca personale del padre, generando in lei un senso di inadeguatezza che in Reato di vita identificherà come prodromico ai suoi disturbi: “Venivo quasi sempre castigata per queste mie rapine di cultura anche perché, secondo mia madre, avrei dovuto andare a letto prestissimo. La mia salute soffrì terribilmente di questi sforzi mentali e soprattutto cominciai a sentire i primi sensi di colpa”.
Nel 1947 la poetessa, a soli sedici anni, incontrò “le prime ombre della sua mente” – come scrive l’amica Maria Corti nell’introduzione alla raccolta Vuoti d’amore – inquietudini successivamente identificate dai medici come disturbo bipolare. Il bipolarismo, detto anche “psicosi maniaco-depressiva” è una patologia caratterizzata da un’alternanza anomala di euforia e depressione. Nel 1947, il quadro legislativo italiano in materia era quello della legge 36 del 1904, una normativa che aveva l’unico scopo di reprimere e contenere i malati – disumanizzandoli attraverso la negazione dei diritti più elementari – e in nome della quale venivano internate nei manicomi “le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale quando [fossero] pericolose a sé o agli altri o ri[uscissero] di pubblico scandalo”.
Il primo soggiorno forzato nella clinica Villa Turro a Milano durò un mese, dopodiché Merini, grazie all’aiuto professionale ed economico dei molti amici ed estimatori che credevano in lei, tra cui Salvatore Quasimodo ed Eugenio Montale, pubblicò quattro raccolte di poesie – La presenza di Orfeo, Paura di Dio, Nozze romane e Tu sei Pietro – e altre sue opere furono inserite in due antologie.
La vita fuori dalle mura dell’istituto di cura però le riservò un ritorno doloroso: la madre e il padre infatti morirono quando Alda Merini aveva appena vent’anni e, nonostante l’esistenza le abbia poi riservato gioie apparenti come il matrimonio e la nascita dei figli, in realtà scorse veloce verso altri episodi depressivi e maniacali non adeguatamente assistiti. Nel 1964, per volere del marito, venne così internata nell’ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Milano dove rimase, tra dimissioni e ricoveri, per dodici anni. Da quel momento per la poetessa il mondo si divise tra “il dentro” e “il fuori” della casa di cura. E anni dopo in un’intervista con Maurizio Costanzo si definirà “la donna con il manicomio dentro”.
Il suo talento per la scrittura, a differenza degli altri pazienti, ha permesso a Merini, una volta dimessa, di poter testimoniare gli orrori vissuti in manicomio. La poetessa ha definito gli ospedali psichiatrici “un’istituzione falsa, una di quelle istituzioni che serve solo a scaricare gli istinti sadici dell’uomo”. Solo il sadismo, infatti, sembrava giustificare ai suoi occhi le scene umilianti e gli abusi che si verificavano all’interno dell’ospedale: “In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture,” ha raccontato Merini, “Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbruttire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento. Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra”.
Alda Merini negli anni a venire ha analizzato lucidamente gli errori del sistema e le mortificazioni che attuava attribuendo una colpa preponderante alla società civile. In una toccante intervista rilasciata nel 1997, disse: “Penso che la base della follia sia questa continua frustrazione dei rapporti. Questo emarginare la persona ritenuta malata. Il giudizio sulla persona malata di solito viene da persone che non sanno assolutamente che cosa sia”.
Come ha ricordato anche una delle figlie della poetessa, Alda Merini era diventata per tutti “la pazza”. Tramite una semplificazione crudele e umiliante, la società aveva emesso il suo verdetto e il manicomio le faceva scontare la pena, rendendola un oggetto inanimato e inerme, tanto che una volta uscita dalle mura dell’ospedale psichiatrico dichiarò “sono innocente”.
Mentre Merini soffriva la mancanza di cure adeguate e gli ingiustificati maltrattamenti, la società italiana veniva attraversata da moti rivoluzionari che coinvolgevano anche il campo della psichiatria. L’ispiratore di questa sovversione del sistema – da struttura di detenzione a struttura di cura – fu il professor Franco Basaglia, che già nel 1961, nelle vesti di direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, rifiutava di applicare ai pazienti le contenzioni fisiche e le terapie di shock, e cominciò invece a prestare la giusta attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni.
Basaglia, supportato da collaboratori e politici progressisti, affrontò un percorso difficile e coraggioso attirando su di sé critiche durissime, ma nonostante tutto grazie alla sua determinazione riuscì a dar prova dei benefici di un modello terapeutico che prevedeva il superamento dell’istituzione dei manicomi com’erano stati fino ad allora. Nel 1973 Basaglia fondò con altri collaboratori “Psichiatria Democratica”, movimento nel quale si confrontavano le esperienze di psichiatria alternativa che stavano sorgendo in Italia. Un drastico cambiamento culturale poi sfociato nella legge 180 del 1978, che portò alla progressiva chiusura e riconversione di tutti manicomi.
Basaglia e il movimento da lui guidato fornirono una nuova prospettiva per guardare alle persone che soffrivano di disturbi psichiatrici, riconoscendo loro in primis lo status di esseri umani e così i loro inalienabili diritti. Alda Merini beneficiò, come tanti altri pazienti che versavano nelle sue stesse condizioni, della rivoluzione culturale apportata dalla legge Basaglia, e ciò generò in lei un senso di tenera e profonda gratitudine tramandato dalla poesia dedicata proprio al professore veneto, che termina con questi versi: “[…] ma la cosa più inaudita, credi / è stato quando abbiamo scoperto / che non eravamo mai stati malati”.
Alda Merini dal 1979 ricominciò a scrivere, sia in prosa che in versi, e l’esperienza del manicomio attraverserà sempre la sua produzione artistica. “La poetessa dei Navigli” si impegnò per tutta la vita per dare voce e dignità a coloro che soffrivano di disturbi mentali. Ha sempre tenuto però a sottolineare che la sua arte non è nata nei manicomi, lei era poetessa già prima: “La poesia è stato un piano superiore in cui sono andata ad abitare nei momenti di disperazione”.
Oggi i manicomi non esistono più, ma l’attenzione alla salute dei malati rischia spesso di essere messa in secondo piano da una burocrazia senza finalità, asettica e insensibile che scarica molte delle responsabilità sulle famiglie dei pazienti. Per questo il messaggio di Alda Merini è ancora attuale: lei è stata una preziosa porta aperta sulle sensibilità inespresse che albergano nel cuore e nella mente dei malati e ha evocato con i suoi versi messaggi di speranza: “Considerando il dolore degli altri ho potuto uscire dal manicomio, guai se mi fossi occupata soltanto del mio dolore, sarebbe stata veramente la fine”.