Da secoli ci interroghiamo sull’origine dell’aggressività e della violenza dell’essere umano. Nel corso del tempo sono state elaborate da filosofi, psicologi, scienziati, psicologi, sociologi risposte diverse, spesso anche in antitesi tra loro. Dall’homo homini lupus che da Plauto è passato a Hobbes, ovvero l’essere umano visto come una creatura egoista spinta dall’istinto di sopraffazione, al mito del “buon selvaggio”, dove invece viene dipinto un individuo inizialmente pacifico e poi corrotto dalla società, le teorie sul seme del male sono state sviscerate in ogni forma.
Nella prima metà del Novecento è salito alla ribalta il pensiero freudiano dell’aggressività strettamente legata alla pulsione sessuale. Ma lo stesso Freud, poco prima di morire, scrisse una lettera a Marie Bonaparte spiegando: “L’intero argomento non è stato trattato a fondo, e ciò che ebbi a dire in proposito nei miei scritti precedenti era così prematuro e casuale da meritare scarsa considerazione”. Nella seconda metà del secolo si è passati a uno step successivo, realizzando studi ed esperimenti all’avanguardia per dimostrare empiricamente le teorie sviluppate sull’argomento. Nel 1961, lo psicologo Albert Bandura capì che per poter comprendere a fondo le dinamiche dell’aggressività era necessario affidarsi ai bambini e al loro istinto di imitazione. Realizzò così l’esperimento della bambola Bobo, diventato nei decenni successivi una pietra miliare nel campo sociale e psicologico.
Bandura partì da quella che venne definita “teoria dell’apprendimento sociale” per compiere un passaggio in ambito psicologico dal comportamentismo al cognitivismo. Mise in luce l’importanza dell’osservazione di certi fenomeni come influenza diretta per l’individuo, soprattutto quando vengono compiuti da figure di riferimento. Per l’esperimento della bambola Bobo vennero scelti 36 bambini e 36 bambine della scuola materna di Stanford, quindi tra i 3 e i 5 anni. Furono divisi in tre gruppi e inseriti in tre stanze. Nella prima, da un lato c’erano dei classici giochi come mattoncini o fogli da colorare, mentre all’estremità c’era un pupazzo, Bobo. Insieme ai bambini c’era un adulto, per rappresentare la figura del “modello”. Dopo pochi minuti l’adulto iniziava ad aggredire Bobo, sia verbalmente attraverso insulti che fisicamente, colpendolo con pugni e calci. Nella seconda stanza erano presenti gli stessi oggetti, ma l’adulto ignorava Bobo e interagiva con i bambini in modo tranquillo, giocando con loro nell’altro lato della camera. Nella terza stanza invece i bambini erano da soli e non seguivano alcun modello.
Quando poi i tre gruppi si riunirono in un’unica stanza dove erano presenti Bobo, dei giocattoli neutri e altri riconducibili alla violenza (martelli o finte pistole), accadde quello che Bandura aveva previsto: i bambini che avevano assistito al modello aggressivo iniziarono a comportarsi come l’adulto che avevano osservato. Colpirono ripetutamente il pupazzo, brandirono le armi finte e si dimostrarono più inclini alla sopraffazione verso i bambini degli altri due gruppi, che invece erano calmi e volevano soltanto giocare come avevano fatto in precedenza. Un altro aspetto interessante che Bandura e i suoi collaboratori notarono – i bambini erano osservati attraverso telecamere e specchi invisibili – fu la differenza di aggressività tra maschi e femmine. I maschi si dimostrarono molto più irruenti a livello fisico rispetto alle femmine, mentre verbalmente il livello di aggressività era simile in entrambi i sessi.
All’epoca l’esperimento fece scalpore. Bandura venne certamente elogiato per questo studio così dettagliato e dalle tesi evidenti, ma ricevette anche delle critiche. Alcune riguardavano l’uso dei bambini, paragonati quasi a delle cavie, e un’assenza di moralità oltre che una possibile ripercussione a lungo termine per la crescita dei bambini coinvolti. Altri appunti furono fatti su piani più tecnici, ovvero il mancato meccanismo di punizione-ricompensa in seguito alle azioni dei bambini. Dunque Bandura nel 1963 replicò l’esperimento aggiungendo quest’ultima componente. I partecipanti del primo gruppo, quello aggressivo, furono ulteriormente divisi in due rami: quelli che venivano premiati in seguito a un comportamento aggressivo e quelli che venivano puniti. I primi, percependo l’approvazione dell’adulto-modello, continuarono a picchiare la bambola, mentre i secondi smisero di imitare l’azione violenta per timore delle conseguenze negative. Questa riedizione dell’esperimento mostrò ancor di più la natura da “spugna” del bambino, che è in grado di assorbire tutte le azioni dell’ambiente circostante e i comportamenti degli adulti.
Nello stesso anno del primo esperimento della bambola Bobo, il 1961, ne fu realizzato un altro che all’apparenza può considerarsi distante da quello di Bandura, ma che in realtà ha più similitudini di quanto si possa immaginare. Si tratta dell’esperimento di Milgram, che non coinvolse i bambini ma che si riallacciò ugualmente alla figura autoritaria in grado di influenzare il comportamento degli individui. L’esperimento nacque in seguito a una domanda dello psicologo Stanley Milgram quando iniziò il processo al criminale nazista Adolf Eichmann: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”.
Per l’esperimento vennero chiamati dei partecipanti di sesso maschile tra i 20 e i 50 anni, spiegando loro che avrebbero partecipato a un esperimento sul tema della memoria. Insieme a loro vennero reclutati degli attori, perché l’esperimento era così strutturato: con un finto sorteggio veniva assegnati i ruoli di “allievi” e “insegnanti”, e questi ultimi dovevo infliggere una punizione agli allievi in seguito alle risposte sbagliate. Gli allievi erano i complici dell’esperimento, mentre i reali partecipanti prendevano il ruolo degli insegnanti. Le punizioni consistevano in scosse elettriche sempre più pesanti- che in realtà non c’erano, ma gli attori fingevano di provare un dolore crescente dopo ogni risposta errata. Anche in questo caso era presente un “modello”, in questo caso uno sperimentatore che esortava gli insegnanti a continuare con le scosse con frasi motivazionali giustificate dall’importanza della scienza, come ad esempio: “È indispensabile che lei continui, lo richiede l’esperimento”.
I risultati furono sorprendenti: nonostante momenti di ansia e alcune proteste, la maggioranza dei partecipanti obbedì agli ordini andando contro i propri principi morali. L’affinità con l’esperimento di Bandura è legata all’obbedienza indotta da una figura autoritaria, un modello considerato “affidabile”. L’esperimento della bambola di Bobo fece però più scalpore perché i tratti dell’aggressività venivano studiati attraverso la figura dei bambini, ovvero coloro che universalmente vengono riconosciuti come soggetti non ancora plagiati dalla società, e quindi innocenti. Viene fuori quindi un apprendimento dell’aggressività mediante l’osservazione, e il processo di imitazione si innesca senza che ci sia una predisposizione atavica al male.
Nei decenni successivi all’esperimento di Bandura il focus si è spostato inevitabilmente sugli stimoli esterni che il bambino è costretto a recepire. In una società dove aumenta sempre di più il bombardamento mediatico di immagini violente e in cui gli stessi modelli trasmettono spesso messaggi negativi, l’influenza sui più piccoli determina quella che non è una vera e propria emulazione, ma la presa di conoscenza dell’esistenza stessa della violenza. Siamo tutti cresciuti assorbendo inconsciamente il male anche attraverso delle semplici fiabe. Hänsel e Gretel dei fratelli Grimm parla di due bambini abbandonati nel bosco dalla famiglia, e finiscono per bruciare una strega nel forno. La sirenetta di Andersen mette di fatto la protagonista di fronte alla scelta tra uccidere il suo amato principe o suicidarsi. Il tema dell’osservazione di Bandura ci spiega quindi come il nostro comportamento sia il risultato di un meccanismo di acquisizione di stimoli esterni, perché il bambino memorizza gli atti aggressivi e il male che lo circonda venendo forgiato nella crescita attraverso un insieme di paradigmi che inevitabilmente lo influenzano. Quindi se seguiamo l’autorità imparando a prendere a pugni una bambola, crescendo il gioco si trasforma nella prevaricazione, nella giustificazione della guerra, nella discriminazione. Perché ci sarà sempre un modello a schiaffeggiare Bobo, e noi siamo predisposti a imitarlo.