Il 21 maggio 2005, David Foster Wallace fu incaricato di tenere il discorso della cerimonia di laurea del Kenyon College a Gambier, Ohio. E a oggi, questo discorso, pubblicato con il titolo Questa è l’acqua, resta uno dei commencement speeches più iconici che siano mai stati pronunciati, insieme a quelli di Bill Gates o Steve Jobs. In un modo che solo lui sapeva fare, Wallace ci invita alla consapevolezza, senza mai perdere l’umiltà coltivata ogni giorno e grazie a cui il fatto di essere più vecchio degli studenti a cui si rivolgeva non sfocia mai nel considerarsi implicitamente più saggio, liberando così la sua oratoria da qualsiasi atteggiamento paternalista.
“Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice: ‘Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?’ I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede: ‘Ma cosa diavolo è l’acqua?’”. L’autore prende le distanze dal raffigurarsi come il pesce che già sa, in quanto “il succo della storia dei pesci è solamente che spesso le più ovvie e importanti realtà sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare”. Lo scrittore si ricollega al luogo comune che spesso emerge in questi tipi di discorsi, per cui una formazione universitaria umanistica, quella che hanno avuto gli studenti ai quali si sta rivolgendo, ti insegni non tanto delle nozioni ma “a pensare”. In questo caso, lo stereotipo risulta vero se analizzato più in profondità rispetto al concetto base, che potrebbe trasparire con una lettura banale: insegnare a pensare non ha niente a che vedere con la capacità di pensare, ma con lo “scegliere cosa pensare”. Questa capacità di scelta discriminante sugli argomenti su cui concentrare la mente è proprio quella che ci farà avvicinare a vivere una vita consapevole, che vada oltre i nostri schemi, basati inevitabilmente sull’egocentrismo, che se è sacrosanto per affermarsi e difendere i propri confini, allo stesso tempo ha la capacità potenziale di essere un vero e proprio vortice in grado di risucchiarci e non farci riconoscere che esistono vite parallele alla nostra, che non hanno meno dignità e vanno rispettate a prescindere senza la presunzione di capirle e giudicarle. Allenarci a pensare e svincolarci dalle convenzioni dell’individualismo, al quale siamo predisposti come esseri umani, è l’unica cosa che ci renderà veramente liberi.
Spesso, infatti, siamo talmente convinti delle nostre stesse credenze da risultare presuntuosi: questo presumere ci rende prigionieri della nostra stessa prospettiva e non ci consente un’analisi lucida, obiettiva e critica verso la realtà e verso noi stessi. Per parlarne, David Foster Wallace usa come esempio quello di un ateo e di un credente che dialogano sulle loro convinzioni, per arrivare a dire che “il problema del credente dogmatico è esattamente uguale a quello del non credente: una certezza cieca, una mentalità chiusa che equivale a un imprigionamento così totale che il prigioniero non si accorge nemmeno di essere rinchiuso”. Non è assolutamente scontato che una profonda certezza sia per forza motivata e giusta. Allontanarci da una visione individualisticamente arrogante è alla base dell’insegnamento del pensiero inteso come scelta di libertà su cosa pensare. Per l’autore il nostro egocentrismo è motivato dal fatto che per tutta la nostra vita vediamo il mondo solamente dai nostri occhi e non da quelli degli altri: la visione centrica su noi stessi risulta essere la configurazione di base per ciascuno, e ha il rischio di portarci a pensare – se non impariamo a farlo in modo corretto e critico – che la dignità del pensiero dell’altro sia subordinata alla nostra. Nel suo discorso agli universitari, David Foster Wallace riconosce quanto, in particolare, la formazione accademica porti a perderci nelle nostre stesse riflessioni, senza renderci veramente conto di cosa abbiamo sotto il naso; proprio come succede ai due pesci con l’acqua.
La routine che si prospetta davanti a questi giovani laureati vedrà una netta prevalenza del tempo speso a lavoro rispetto a tutto il resto, che li farà bramare il riposo a fine giornata, prima che il giorno dopo tutto si ripresenti da capo, nella ripetizione compulsiva alla quale la società in cui viviamo ci ha abituati. L’autore descrive quanti intoppi possano esserci per il lavoratore prima di potersi andare a rilassare a casa: uscire dal lavoro, guidare nel traffico, arrivare in un supermercato gremito di gente che ha passato una giornata a lavoro proprio come noi, vagare nel caos per scegliere cosa comprare e poi ritrovarsi in una lunga fila alle casse per pagare. Tutto questo che ci fa arrabbiare diventerà insieme a “tante altre routine apparentemente insignificanti, noiose e fastidiose” parte della giornata anche di un lavoratore laureatosi in un’università prestigiosa come il Kenyon College, che magari pensa di meritarsi qualcosa di diverso. Wallace, però, smonta il fastidio generato dalla ripetizione di questi gesti prosastici e apparentemente privi di significato che ci separano da ciò che per noi è davvero importante, dicendo che se cambiamo il nostro punto di vista, dando significato anche a questo tempo e a queste azioni possiamo viverle diversamente, sta a noi scegliere con cosa identificarci.
Mentre sono in fila e aspetto il mio turno per pagare, se continuo a pensare “alla mia fame, alla mia stanchezza e al mio desiderio di andarmene a casa”, tutti quelli che mi stanno intorno diventeranno inevitabilmente degli ostacoli. Pensare in questo modo non mi rende libero: è un modo di ragionare così semplice e automatico da non essere più una vera scelta personale. Mi fa sentire infelice e mi blocca in una realtà centrata esclusivamente sui miei bisogni e il loro rapido soddisfacimento, non sempre possibile e quindi spesso fonte di insoddisfazione. Esercitarsi a sfruttare un’occasione come questa per concentrarsi sull’esistenza del prossimo e analizzare le altre vite e ciò che le muove ci renderà più consapevoli sulla nostra stessa esistenza. Non possiamo credere davvero di capire le cose, il mondo ha cause che non possiamo nemmeno lontanamente immaginarci. Quando mi ritrovo imbottigliato nel traffico e mi altero per i comportamenti altrui alla guida, non posso sapere chi siano quelle persone intorno a me: potrebbero aver avuto in passato incidenti stradali e, adesso, essere terrorizzate dal guidare, ad esempio; oppure, potrebbe esistere la possibilità che “quell’Hummer che mi ha appena tagliato la strada sia forse guidato da un padre il cui figlio piccolo è ferito o malato nel sedile accanto a lui, e stia cercando di portarlo in ospedale, ed abbia quindi legittimamente molto più fretta di me: in effetti sono io che blocco la sua strada”. Non posso presumere di sapere ciò che muove gli altri, è un’illusione della mia mente, che per agire deve identificarsi in qualcosa, di cui per non rimanere in trappola devo essere cosciente.
Questa elasticità mentale e coinvolgimento dei possibili vissuti altrui dentro la nostra sfera di pensiero, normalmente appiattita, però è difficile da mettere in pratica, va esercitata quotidianamente , “richiede volontà e fatica e, se voi siete come me, in certi giorni non sarete capaci di farlo, o più semplicemente non ne avrete voglia”. Tuttavia, altre volte potremo riuscire in questo intricato intento e darci la possibilità di scegliere di guardare la vita sotto un’altra prospettiva. L’arroganza di sapere cosa sia la realtà e di vederla confinata secondo schemi di default non ci apre al prossimo e al vero senso dell’esistenza, ci irrigidisce e paradossalmente ci limita, rendendoci inadattabili al mondo, sopprimendo qualsiasi domanda.
Per David Foster Wallace, la configurazione stessa dei nostri pattern mentali è incompatibile con l’ateismo. Infatti “non è possibile non adorare qualche cosa. Tutti credono. La sola scelta che abbiamo è su che cosa adorare”. Le varie forme di adorazione possono avere come oggetto non solo divinità, ma anche il denaro, le cose materiali, la bellezza fisica, il potere, l’intelletto, le idee. Tutti questi oggetti di desiderio e identificazione però sono insidiosi e spesso inconsci e comunque insoddisfacenti, così si finisce per bramarne sempre di più quando la soddisfazione che portano inizia a diminuire, fino a diventare insaziabili. Ad esempio, adorando il potere “finirete per sentirvi deboli e impauriti, e avrete bisogno di avere sempre più potere sugli altri per rendervi insensibili alle vostre proprie paure”. Il mondo reale che i giovani laureati hanno davanti spinge al ragionamento di default, in quanto giustifica una forma di libertà limitatamente concepita come l’essere padroni di “minuscoli regni grandi come il nostro cranio, soli al centro del creato”. Ma la vera libertà non si limita a questo, ma anche ad avere attenzione e consapevolezza verso chi ci sta intorno: l’incoscienza su ciò che ci circonda enfatizzerà solo la sensazione di essere soli e di essersi persi qualcosa dietro si sé. Ecco perché l’istruzione non finisce con la cerimonia di laurea, ma è un “lavoro che dura tutta la vita”. Lavoro che coinvolge se stessi e il proprio rapporto con gli altri, cercando di ripetersi ogni volta, come un mantra o una formula magica nei momenti più bui, dove l’egocentrismo insito in noi raggiunge l’acme: “Questa è l’acqua. Questa è l’acqua”.
“La Verità con la V maiuscola è sulla vita prima della morte”. A volte, l’essere umano può essere morto dentro anche se è ancora in vita. Rifacendosi al luogo comune di “mente come ottimo servitore, ma pessimo padrone”, l’autore ne ammette la triste verità: per questo alcuni morti suicidi si sparano in testa, ovvero sparano al loro pessimo padrone, che li rende dei morti viventi. David Foster Wallace ha cercato di farci capire che non ha senso “passare la [nostra] confortevole, prosperosa, rispettabile vita adulta, come dei morti, incoscienti, schiavi delle [nostre] teste e della [nostra] solita configurazione di base per cui in ogni momento [siamo] unicamente, completamente, imperiosamente soli”. In quest’ottica, il suo suicidio nel 2008 sembra averlo reso libero dal pessimo padrone che forse era diventata la sua mente, restando coerente con se stesso e rifuggendo dalla schiavitù a cui si sentiva assoggettato: quella per lui probabilmente non era più vita.