“A Kind of Language” mostra il farsi corpo di un sogno, quello del cinema - THE VISION
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L’Osservatorio di Fondazione Prada in Galleria a Milano è un luogo magico. Perché è nascosto, in alto, incastrato in quella sorta di non-luogo tra la struttura volumetrica urbana di Milano e il vuoto della galleria, di vetro e ferro. Raggiungibile con un ascensore che sembra magico e misterioso, come sanno essere i tetti intesi come dimensione rizomatica dell’abitare, al pari delle strade, ma meno raggiungibili. E sarà per via del ferro – pesantissimo eppure tuttora simbolo dei magnifici sogni della società occidentale prima della sua totale disfatta, e ovviamente dello spazio ricavato per sottrazione dal tessuto edificato – che ogni volta che ci salgo non posso non pensare a Parigi e ai suoi passages, e quindi a Walter Benjiamin, che infatti parte dai vuoti, dai margini, e dai dettagli per osservare il presente.

Nei passages parigini, a differenza della Galleria Milanese, commerciale e salottiera per la borghesia cittadina, c’erano le prostitute, e i caffé, e una miriade di oggetti strani. Benjamin così – come qualsiasi osservatore, poeta, o scrittore, ma pure regista, narratore di realtà – cerca di salvare i fenomeni che scorge dall’oblio, dal nulla, attraverso i dettagli, accatastando una fenomenologia micrologica, cercando di sprofondarci, e riconoscendo in questo brulichio anonimo di fatti e sensazioni una forza incontrastabile e anintenzionale. Qualcosa di simile accade osservando A Kind of Language: Storyboards and Other Renderings for Cinema”, la mostra curata da Melissa Harris visitabile all’Osservatorio fino all’8 settembre, che esamina il processo creativo prima della realizzazione di un film, attraverso storyboard e altri materiali come moodboard, disegni e schizzi, scrapbook e taccuini, sceneggiature commentate e fotografie. Bozzetti, frecce, fotografie, frasi ridotte al minimo per garantire il precipitare di un intuizione fattiva nel mondo, le indicazioni fondamentali per tradurre un’idea, una sensazione, un sogno, in una realtà, riproducibile, veicolabile, comprensibile agli altri.

Quando si pensa a un film si pensa a una delle cose apparentemente più intenzionali e progettate per eccellenza, e invece non è del tutto così, non in alcune fasi almeno. Anche nel progetto restano spazi aperti. Anzi, secondo alcuni grandi maestri, vanno sempre lasciati socchiusi, proprio per lasciar entrare l’inaspettato, il rischio, il caos: l’arte, che proprio come le erbacce nei marciapiedi sa insinuarsi nelle fessure più impensabili. Come racconta Bertolucci, Jean Renoir una volta gli disse: “Quando si gira, bisogna sempre lasciare una porta aperta, perché non si sa mai, qualcuno potrebbe entrare, senza che nessuno se l’aspetti, e il cinema è questo”. Ecco cosa succede in A Kind of Language, entriamo in punta di piedi sul set di un sentimento collettivo, composto dall’immaginazione di alcuni dei più grandi registi e registe della storia del cinema, passata e presente, come: Pedro Almodóvar, Wes Anderson, Matthew Barney, Ingmar Bergman, Bernardo Bertolucci, Luis Buñuel, Charlie Chaplin, Tan Chui Mui, Sofia Coppola, Walt Disney Productions, Federico Fellini, Terry Gilliam, Jean-Luc Godard, Alfred Hitchcock, Alejandro González Iñárritu, John Irving, Alejandro Jodorowsky, Akira Kurosawa, Hayao Miyazaki, Pier Paolo Pasolini, Sally Potter, Satyajit Ray, Jerome Robbins, Martin Scorsese, Steven Spielberg, Agnès Varda, Carrie Mae Weems, Wim Wenders, Robert Wise e Jia Zhang-Ke. Fino a settembre, inoltre, il Cinema Godard di Fondazione Prada ospiterà una sezione dedicata proprio alla mostra, presentando una selezione di film che danno forma al progetto, che comprende più di ottocento elementi realizzati tra la fine degli anni ‘20 e il 2024 da più di cinquanta autori diversi, tra registi, direttori della fotografia, illustratori, grafici, animatori, coreografi e altre figure legate alla produzione cinematografica.

Questa mostra apre una finestra su un aspetto apparentemente molto tecnico della produzione cinematografica, eppure assolutamente affascinante e vicino al pubblico, perché non c’è niente di più immediato di uno schizzo, di un bozzetto, di un appunto, sottratto al fluire dei pensieri, per chiunque questa pratica può essere familiare, anche per chi non si occupa di creazione artistica. E forse il materiale esposto diventa così fruibile anche perché è un materiale fatto per essere riprodotto e diffuso tra diverse figure, fatto per trasmettere qualcosa di estremamente personale a qualcuno di potenzialmente molto distante dalla sensibilità dell’autore, materiale a volte realizzato nemmeno dal regista stesso, ma già frutto di una traduzione, di uno scambio, fatto per essere consultato, ripreso, modificato. Questi storyboard sono quindi materiali vivi, stratificati, estremamente profondi e al tempo stesso proiettati al futuro, estremamente pratici, evocativi ed estetici allo stesso tempo, sperimentali per definizione. E tutti insieme vanno a comporre appunto questa sorta di linguaggio, composito e cangiante, una specie di esperanto visuale e cognitivo, che evolve e involve insieme all’incessante forza immaginifica dell’umano e in parallelo alla trasformazione tecnologica che ha accompagnato il cinema.

L’affascinante allestimento, ideato da Andrea Faraguna dello studio di architettura Sub di Berlino, richiama questa visione e prende ispirazione dalla forma stessa dello storyboard, punto di partenza della creazione cinematografica e strumento per comporre e comunicarne il processo. Concentrandosi sul ruolo di questo strumento, il progetto espositivo presenta e reinterpreta l’ambiente di lavoro degli artisti di storyboard all’interno degli spazi dell’Osservatorio. I grandi tavoli espositivi ispirati ai tecnigrafi scandiscono così lo spazio della mostra, ridisegnandolo e dandogli un ritmo ben preciso, quasi come accadeva ai fotogrammi delle pellicole. Ogni elemento è dedicato a un film, di cui viene presentata la narrativa visiva attraverso alcune delle scene più iconiche, ma non solo, e insieme creano una prospettiva continua, che richiama i riquadri dello storyboard, che poi altro non è che il grado zero del fumetto. 

Le origini dello storyboard risalgono all’inizio del XX secolo e sono legate allo sviluppo dell’animazione. A partire dagli anni Trenta, i Fleischer Studios e la Walt Disney Productions, e poi negli anni Quaranta la United Productions of America, commissionavano ad artisti la creazione di sequenze di schizzi e altri elementi visivi durante l’elaborazione della trama e la definizione dei personaggi. Negli stessi anni lo storyboard diventa uno strumento fondamentale per l’elaborazione delle opere cinematografiche, dall’animazione al live-action, una rappresentazione visiva concreta e sistematica dello svolgimento della storia. E ancora oggi, lo storyboard continua a essere il precursore dei progetti di animazione e non solo. Come spiega Melissa Harris: “Per molti creare gli storyboard è parte integrante del processo. Impostare visivamente una scena per poi definirne l’andamento può aiutare il team coinvolto nella realizzazione del film a riflettere sulle relazioni tra i personaggi, a immaginare come sviluppare la narrazione o a comprendere il miglior modo di trasmettere l’essenza di una particolare sequenza. Può anche aiutare a correggere i problemi, per esempio quando qualcosa non sembra del tutto convincente in un personaggio o in un’interazione fisica, e offrire un riferimento visivo agli attori. Sul piano tecnico, gli storyboard possono aiutare il regista a determinare le angolazioni più efficaci per l’illuminazione e le riprese, o il miglior modo di impiegare le dissolvenze ed eventuali effetti speciali.” Lo storyboard è quindi l’equivalente di un bozzetto, anche quando è realizzato con un livello di attenzione e cura al dettaglio artistico straordinario. Nella mostra infatti si può ammirare l’alterità e l’infinita possibilità della visione, declinata di volta in volta in base all’immaginario del soggetto che la genera, delle sue relazioni e sensibilità, del suo modo di dar forma ai pensieri e alle relazioni, il suo incarnarsi in un disegno, composto di tratti, colori, linee, volumi e talvolta grafemi, che mostrano in quanti modi la nostra forma mentis possa tradursi.

Vedere affiancati nello spazio raccolto dell’Osservatorio i disegni preparatori che hanno aiutato a dar forma compiuta ad alcuni dei più grandi film della storia del cinema è incredibilmente nutriente ed emozionante, proprio perché è come poter sbirciare per un istante – anche se il tempo tra quei tecnigrafi minimalisti sembra dilatarsi all’infinito, misurando davvero la distanza tra l’immagine statica e quella in movimento – nella mente di alcuni dei più grandi registi e registe dell’ultimo secolo, guardando ciò che di solito non si può – e magari non si deve – vedere, qualcosa di estremamente intimo, potente e fragile al tempo stesso: il farsi corpo di un sogno.

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