Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha dichiarato ormai da tempo che non parteciperà a nessuna manifestazione per la commemorazione del 25 aprile. Sarà invece in Sicilia, a Corleone, per sostenere le Forze di Polizia nella lotta alla mafia. La lotta alla criminalità organizzata è importante, ma in questo caso si tratta solo di un’occasione che offrirà al ministro dell’Interno la scusa per disertare le celebrazioni della liberazione dal nazifascismo, in un’ottica di devalorizzazione della lotta partigiana e ulteriore normalizzazione delle formazioni politiche di estrema destra, sempre più frequente da parte dell’attuale governo. Salvini ha anche affermato che quello fra comunisti e fascisti sarebbe un derby al quale il ministro non è intenzionato a partecipare.
Eppure, caro ministro, la Resistenza non è stata una partita di calcio, ma un movimento di massa che ha messo fine a due tra i regimi totalitari peggiori che il mondo abbia mai visto: il fascismo italiano e il nazismo tedesco. Certo, ci furono due campi contrapposti. Da una parte le forze del regime fascista, ricostituito da Mussolini a Salò, uno Stato fantoccio nelle mani di Hitler e delle truppe di occupazione naziste che controllavano il Nord Italia. Dall’altra migliaia di uomini e donne che si organizzarono per liberare il Paese.
Le formazioni partigiane erano una forza eterogenea: in maggioranza comunisti, organizzati nelle Brigate Garibaldi, e socialisti, che formarono le Brigate Matteotti, ma anche molti combattenti di varia provenienza politica inquadrati nelle formazioni di Giustizia e Libertà, guidate dal Partito d’Azione. Ci furono formazioni monarchiche, cattoliche, anarchiche, marxiste antistaliniste, come Bandiera Rossa nella Resistenza romana, che nella Capitale arrivò a superare per numero di iscritti lo stesso Pci. Numerosi partigiani non comunisti si arruolarono nelle Brigate Garibaldi, organizzate dal Partito Comunista, semplicemente perché erano le meglio armate e meglio organizzate grazie alla rete clandestina che il partito aveva conservato, al prezzo di numerose perdite tra i propri quadri, durante gli anni più duri del regime. Nonostante l’apporto fondamentale dato dai comunisti alla Resistenza, derubricare il movimento a un derby fra comunisti e fascisti è riduttivo e antistorico. Quella era l’estremo tentativo di liberare il Paese da una tragica dittatura. E bisogna sempre ricordarsi che senza il suo successo la nostra Repubblica, quella di cui Salvini dovrebbe rappresentare l’istituzione, oggi non esisterebbe.
Non si può ridurre il fenomeno resistenziale a mera esperienza di partito. Nonostante una delle narrazioni revisioniste più di moda, quella del “a parte la guerra, Mussolini ha fatto cose buone”, la Resistenza e il clima che l’ha generata non è germogliato dal nulla. Il malcontento legato alle terribili condizioni economiche e sociali in cui versava il Paese era già esploso da tempo. Alla base del crollo del regime, ben prima dell’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943 e dell’occupazione nazista del Nord Italia, ci fu una serie di scioperi spontanei, solo in parte supportati e gestiti dalla rete clandestina del Pci. Dopo la presa del potere e la messa fuori legge dei partiti e dei sindacati, il fascismo aveva proibito gli scioperi con gli articoli 330-333 e 502 del codice Rocco, con gli ultimi scioperi illegali guidati dai comunisti repressi nel sangue. Tuttavia nel corso del decennio successivo i prezzi erano aumentati e i salari erano diminuiti, peggiorando le condizioni di vita dei lavoratori in modo drastico. A questo si aggiunse la feroce repressione e l’odio per il regime, considerato responsabile della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale. I primi scioperi cominciarono il 2 maggio 1942 a Carbonia, in Sardegna, e coinvolsero i lavoratori delle miniere di Sirai. Il 26 maggio centinaia di donne manifestarono per le strade di Sesto San Giovanni, roccaforte operaia alle porte di Milano, contro il carovita e per un prezzo calmierato del pane. Entrambe le mobilitazioni vennero represse e gli organizzatori arrestati. Il 5 marzo 1943 cominciò la vera ondata di scioperi: centomila lavoratori nelle fabbriche di Torino incrociarono le braccia, supportati dalla rete clandestina del Pci, che pure aveva solo poche centinaia di iscritti nella zona. Presto le manifestazioni si diffusero in tutto il triangolo industriale, coinvolgendo Milano e Genova e preparando il terreno alla guerra partigiana. Molti operai, dopo gli scioperi, vennero arrestati e inviati nei campi di concentramento nazisti. Molti vi morirono. Celebrare il 25 aprile è ricordare anche il loro sacrificio.
Ma non solo. La Resistenza è stata anche un’esperienza europea e, soprattutto, multietnica. Europea, perché le formazioni combattenti furono numerose in diversi Stati: dagli ebrei socialisti del ghetto di Varsavia, ai partigiani nella Francia e nell’Olanda occupate, alle organizzazioni clandestine nella Germania nazista. Multietnica perché i partigiani che operavano nel nostro Paese non erano tutti di origini italiana, in un’Italia che all’epoca era una terra di emigrazione e non certo di immigrazione. Migliaia di sovietici combatterono nella Resistenza tra russi, ucraini, georgiani, azeri, armeni, lettoni, kazaki, bielorussi e daghestani. Anche numerosi jugoslavi si unirono alle formazioni partigiane italiane, così come molti italiani combatterono nell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. In Piemonte, nelle Langhe, operò l’Islafran, una brigata composta da italiani, jugoslavi e francesi e unica in Italia a essere comandata da uno straniero, lo sloveno Eugenio Stipcević. E poi disertori tedeschi e danesi, che passarono dalla parte dei partigiani, e perfino somali e eritrei che dalle colonie giunsero in Italia per combattere il fascismo. Individui di oltre cinquanta nazionalità combatterono al fianco degli italiani contro il regime: una buona raccolta di fonti sul tema, su cui ancora non esistono studi di ampio respiro, è stata fatta da Wu Ming 2 sul blog della Wu Ming Foundation.
Gli anni dal 1943 al 1945 hanno visto uomini e donne dalle sensibilità politiche diverse mettere in campo un’esperienza di radicale collaborazione democratica contro il regime. Un buon esempio – ma se ne potrebbero fare centinaia – è quello della Brigata Cichero, formazione operante in Liguria e inserita tra le Brigate Garibaldi, che però riuniva combattenti di diversa ispirazione politica, accomunati da un codice di comportamento a cui si attenevano scrupolosamente durante le operazioni partigiane. Fra le regole più importanti c’era l’elezione dei comandanti, revocabile dall’assemblea che li aveva votati, che dovevano essere gli ultimi a ricevere razione e vestiario e a cui spettava il turno di guardia più faticoso. Altri principi cardine furono la discussione in assemblea degli ordini dei superiori, nonostante la rigida disciplina in azione, e il rispetto della popolazione locale: i partigiani non dovevano sequestrare viveri e vettovaglie ai civili senza autorizzazione, non dovevano importunare le donne e non potevano bestemmiare per non urtare la sensibilità dei contadini, spesso profondamente cattolici. La Brigata Cichero disarmò per ben due volte nell’estate del 1944 la Brigata GL-Matteotti, che operava nella medesima zona, perché accusata di scarso rispetto per la popolazione civile.
Questa è un’altra importante differenza tra il movimento resistenziale e i fascisti: se è vero che vi furono partigiani che commisero uccisioni ingiustificate e furti, questi furono eccessi, perseguiti dalla giustizia e dalle altre brigate partigiane, in ogni caso contrari al codice di comportamento prevalente tra le formazioni della Resistenza. I fascisti e i nazisti, invece, fecero dei rastrellamenti, degli eccidi indiscriminati e della repressione la loro politica principale per sradicare il movimento resistenziale nelle zone occupate.
Impostazione democratica, lotta contro un regime dittatoriale, collaborazione tra formazioni ideologicamente diverse nell’orizzonte della liberazione dell’Italia dal nazifascismo: questo ricordiamo della Resistenza. Da anni vediamo in atto una contronarrazione del fenomeno per definire i partigiani come torturatori e assassini e i “combattenti di Salò” come difensori della patria dall’invasione angloamericana e dalle “bande comuniste” che imperversavano sui monti dell’Appennino e delle Alpi. Una narrazione che, se prima era confinata ai circoli dell’estrema destra legati all’Msi, dagli anni Novanta è diventata il nuovo mainstream, a partire dai più recenti libri di Pansa, che tentano di far passare i fascisti per vittime. Il mondo della politica è parte attiva di questo sdoganamento: dai numerosi spazi concessi dal Partito Democratico ai fascisti del terzo millennio, alle esternazioni di Grillo del 2013 a proposito di CasaPound e ai recenti rapporti del M5S con l’estrema destra italiana e internazionale, fino alle dichiarazioni di Salvini. È in atto un tentativo di gettare partigiani e repubblichini nello stesso calderone di riconciliazione nazionale, dimenticando che i primi combattevano per la liberazione del Paese dal fascismo e dalle truppe naziste, mentre i secondi sostenevano la dittatura e la negazione delle libertà fondamentali dell’essere umano. Un’assimilazione che resta ancora oggi antistorica, vergognosa e inaccettabile. Anche se il ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio ha deciso di dimenticarsene, o di non ricordare.