Negli Usa i neri muoiono più dei bianchi anche di coronavirus. Se si ribellano è anche per questo.

Non sappiamo ancora se la pandemia di coronavirus porterà a cambiamenti rivoluzionari e duraturi, ma di certo ci sta facendo riflettere e discutere su aspetti fino a questo momento dati per scontati del nostro vivere comune: dal modello economico basato su inquinamento e sfruttamento, anche animale, alla privatizzazione della sanità, fino all’impostazione del mondo del lavoro e della scuola. A partire dalla fine di maggio, e soprattutto dopo l’omicidio dell’afroamericano George Floyd, si è imposto tra gli altri temi di dibattito – finalmente – il razzismo, lascito di un passato coloniale ancora molto presente e irrisolto in molti Paesi, Stati Uniti in testa

I dati parlano chiaro: negli Stati Uniti il tasso di mortalità da Coronavirus tra gli afroamericani – seguiti da indigeni e latinos – è più che doppio rispetto a quello degli statunitensi bianchi, che rappresentano il 62% circa della popolazione totale ma solo il 51% delle morti. Altri dati hanno classificato i codici postali di New York sulla base del numero di decessi per Coronavirus registrati nei rispettivi quartieri: otto dei primi dieci corrispondono ad aree la cui maggioranza di abitanti sono latinos o neri, mentre non è presente nessuno dei quartieri a maggioranza wasp (white anglo-saxon protestants) e benestante di Manhattan. Anche nel Regno Unito, i neri hanno quattro volte la probabilità di morire a causa del Coronavirus rispetto ai bianchi, secondo i dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica, ma anche le altre etnie non bianche mostrano tassi di mortalità elevati: indiani, pakistani, caraibici, cinesi hanno dal 10 al 50% in più di probabilità di morte per COVID-19 rispetto ai bianchi, secondo lo studio britannico Disparities in the risk and outcomes of COVID-19 promosso dall’ente inglese di sanità pubblica. I dati sono confermati anche dallo studio Investigating associations between ethnicity and outcome from COVID-19, per il quale i cittadini di etnia bianca sono quelli con la minore possibilità di ammalarsi. Le conoscenze scientifiche escludono l’ipotesi che siano i fattori genetici legati all’etnia ad avere un ruolo in questa disparità. 

TOPSHOT – A staff member of the Ministry of Health measures the temperature of drivers and passengers during the testing of the COVID-19 Coronavirus on the highway in Nakuru, Kenya, on March 31, 2020. – Kenya has so far recorded 50 cases of coronavirus, and one death. (Photo by Suleiman MBATIAH / AFP) (Photo by SULEIMAN MBATIAH/AFP via Getty Images)

Se è possibile che tra gli elementi che determinano questa sproporzione possano esserci anche alcune carenze vitaminiche (in molti casi riconducibili a una dieta meno varia e meno nutriente, e quindi anch’esse collegate allo stile di vita delle minoranze indigenti), a pesare di più sono comunque povertà e incertezza lavorativa, insieme alle condizioni di vita più stressanti dei neri, che abitano sobborghi affollati o aree poco salubri. A Washington, per esempio, il tasso di mortalità tra gli afroamericani è di sei volte più alto che tra i bianchi. Se è vero che tra le minoranze si riscontrano più elevati livelli di obesità, diabete, ipertensione e altri fattori di rischio, sostenere che l’elevata incidenza di morte tra gli afroamericani sia da ricondurre a uno stile di vita insalubre è una posizione intellettualmente onesta solo se si connettono questi dati a ragioni sociali e storiche, senza cadere in una banale e insensata colpevolizzazione di questa comunità. Decenni di segregazione, situazioni abitative insalubri, disoccupazione, disparità salariale, violenze da parte della polizia, carenze nell’assistenza sanitaria e nell’istruzione sono fattori rilevanti che giocano un ruolo sia nello stile di vita meno sano sia in altri elementi che contribuiscono a esporre le minoranze a un maggiore rischio di ammalarsi, anche di Coronavirus. I cittadini di etnia diversa da quella bianca nel Regno Unito e negli Stati Uniti hanno infatti maggiore probabilità di essere esposti all’infezione perché spesso vivono in aree urbane e povere, in case sovrappopolate e fanno lavori che li espongono a rischi maggiori. 

Oggi, per esempio, è riconosciuto il ruolo dell’inquinamento nel rendere più vulnerabile il fisico agli agenti virali e non a caso le ricerche scientifiche dimostrano che in media neri e cittadini di origine asiatica sono più esposti ai maggiori inquinanti atmosferici, per fattori come la collocazione delle loro case – spesso situate nei quartieri meno benestanti e più inquinati – e alla professione che svolgono. Molti newyorkesi con basso reddito che vivono nei sobborghi sono costretti a rischiare la vita uscendo tutti i giorni per andare a lavorare, in quanto lavoratori “essenziali”, mentre molte aree ricche di Manhattan si sono trasformate in queste settimane in quartieri fantasma, abbandonati dai loro abitanti che si sono trasferiti nelle seconde case per svolgere il loro lavoro da remoto. Inquinamento, povertà, occupazione, istruzione sono gli elementi che determinano questa disuguaglianza; si tratta cioè di fattori sociali, che il Coronavirus ha mostrato in tutta la loro criticità. 

Tra le forme di discriminazione rese ancora più evidenti dal virus c’è quella contro le donne. Nonostante, per ragioni biologiche, immunitarie e di stile di vita non ancora del tutto chiare, gli uomini abbiano maggiori probabilità di ammalarsi e con effetti più gravi, sono le donne a subire le maggiori conseguenze indirette dell’epidemia. Per fare un esempio, il 55% dei posti di lavoro persi negli Stati Uniti in queste settimane erano occupati da donne. E questo si aggiunge al fatto che la popolazione femminile subisce il peso della gestione familiare e della prole, dato che negli Stati Uniti l’80% delle famiglie monoparentali è costituito da una donna e dai suoi figli una situazione simile a quella italiana e che anche nelle famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori conviventi la gestione dei figli ricade in buona parte dei casi quasi solo sulla donna. A questo si aggiunge la disparità salariale e, di conseguenza, la maggiore probabilità che le donne hanno di vivere in povertà. 

Che le epidemie portino a galla le discriminazioni di una società nei confronti delle sue minoranze non è una novità. Il colera, per esempio, è una malattia che può colpire indiscriminatamente, ma la cui diffusione è legata  a situazioni di disagio, sistema fognario inesistente o carente, pessime condizioni igieniche e sovraffollamento. A stabilire in modo definitivo la connessione tra colera e povertà fu, nel 1854, il medico inglese John Snow, dimostrando che il colera si propaga attraverso l’acqua. Le autorità sanitarie britanniche cominciarono così a fare pressioni sul loro governo per una riforma del sistema idraulico, che sarebbe diventato il modello per diversi sistemi di gestione idrica locali e statali in vigore ancora oggi. Una decisione forse accelerata anche dall’epidemia che, nel 1849 colpì la città di New York e in particolare i suoi quartieri più poveri come i Five Points, dove gli immigrati irlandesi erano stipati in abitazioni di legno senza acqua corrente né servizi igienici. Il risultato fu che mentre i newyorkesi benestanti si rifugiarono nelle campagne, la comunità irlandese contò il 40% delle morti complessive dell’epidemia. 

Una situazione molto simile si ripeté durante l’epidemia di tifo del 1892, quando le autorità sanitarie newyorkesi incolparono del focolaio gli immigrati ebrei recentemente arrivati dalla Russia viaggiando in terza classe, e imposero loro la quarantena sulla North Brother Island nell’East River, mentre non furono prese misure nei confronti di chi aveva viaggiato in prima classe sulla stessa nave. Discriminazioni simili si ebbero anche nel 1916, con l’esplosione di un’epidemia di poliomielite che prese avvio a Pig Town, una zona di Brooklyn, abitata da immigrati italiani che vivevano circondati da spazzatura e maiali che razzolavano liberamente. Nonostante ci siano prove che la polio circolasse già dall’ultimo decennio del secolo precedente, all’epoca l’aumento dei casi di polio fece crescere anche il sentimento di odio verso i nuovi arrivati italiani, esacerbato anche dalle autorità e dalla polizia. Anche in quell’occasione,  mentre i benestanti dell’Upper East Side si rifugiavano a Long Island, i poliziotti pattugliavano le strade e le stazioni per impedire agli italiani di lasciare la città, mentre gli ufficiali sanitari andavano casa per casa a Brooklyn per imporre l’isolamento e l’ospedalizzazione. 

Non dobbiamo stupirci che anche oggi la pandemia abbia toccato i nervi scoperti del nostro sistema socio-economico: il filosofo, attivista e scrittore afroamericano Cornel West sottolinea che “Il virus incontra strutture e istituzioni profondamente razziste già in essere, su uno sfondo di ingiustizia economica, uno stato militarizzato e una cultura mercificata in cui tutto è in vendita”. Anche se sono cambiate le origini o il colore della pelle di chi è discriminato, più di un secolo non è ancora bastato per impedire che la povertà resti per troppe persone una condizione molto più letale di qualunque virus.

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