Con l’avvicinarsi della cosiddetta “Fase 2” dell’emergenza e l’allentamento delle misure di lockdown, è sempre più evidente che la “nuova normalità” si baserà su distanziamento sociale e utilizzo di dispositivi di protezione individuale come guanti e mascherine. Mentre la politica discute sulle app di contact tracing per risalire più facilmente alle eventuali nuove catene di contagio e sull’istituzione di una “patente di immunità” per chi è già entrato in contatto con il virus, gli scienziati sono molto più cauti: non ci sono abbastanza dati a disposizione per capire se le persone toccate dal virus hanno effettivamente acquisito un’immunità più o meno duratura. Anche secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, per il momento l’ipotesi di una “patente di immunità” è da scartare.
Quello che è certo è che, ovunque siano stati svolti più test sulla popolazione, è stato possibile avere un maggiore controllo sull’andamento dell’epidemia, come avvenuto in Corea del Sud. Il metodo, finora portato avanti da molte nazioni tra cui l’Italia, di testare con il tampone solo i pazienti arrivati in ospedale già con sintomatologia grave non può più funzionare perché non permette di capire quanto sia realmente diffuso il virus nella popolazione, a meno che non venga verificato continuamente un grandissimo numero di persone. Ne è stata una dimostrazione il caso di Vo’ Euganeo, una delle prime zone rosse in Italia. Nel comune in provincia di Padova, infatti, sono stati svolti test ripetuti su più dell’85% dei residenti e il 43% dei positivi si è rivelato asintomatico ma comunque contagioso. Un dato che se ottenuto a livello nazionale permetterebbe di programmare al meglio un ritorno alla vita normale.
Ma effettuare un così alto numero di tamponi non è possibile, sia per un limite logistico legato al costo e alla scarsità di reagenti chimici a disposizione dei laboratori per analizzare i campioni che per il numero ridotto di queste strutture a disposizione delle singole regioni . Ecco perché si sente parlare sempre più spesso di test sierologici che potrebbero davvero fare la differenza. In Italia, entro la fine di aprile, dovrebbero essere testate con questo metodo tra le 150 e le 200mila persone, per capire qual è la percentuale della popolazione entrata in contatto con il Sars-CoV-2. Un test simile permette, con un prelievo venoso, di ricercare nel sangue gli eventuali anticorpi sviluppati contro il Coronavirus, con l’obiettivo di capire se il soggetto è entrato in contatto con il virus in un passato più o meno recente e se ha sviluppato immunità. A essere esaminati, in particolare, sono due tipi di anticorpi: le immunoglobuline M, responsabili della risposta primaria a un’infezione, e le immunoglobuline G, che vengono prodotte successivamente e servono a verificare se si è formata una sorta di “memoria immunitaria” del virus. Questi test devono essere effettuati in un laboratorio di analisi, ma sono in vendita anche dei test anticorpali da svolgere a casa con una semplice puntura su un dito, come avviene per il test glicemico. Ci sono però forti dubbi sulla loro affidabilità, tanto che in Italia Federfarma sconsiglia alle farmacie la vendita di questi prodotti.
Eppure, anche secondo Harvard Business Review, la convivenza con il virus in attesa del vaccino passa tra le altre cose proprio dalla possibilità di poter identificare in modo rapido e affidabile chiunque sia infetto o lo sia stato in passato. Per esempio, al momento negli Stati Uniti, secondo il COVID Tracking Project, vengono testate circa 140mila persone al giorno. Ma perché si abbiano dei dati utili questi numeri devono arrivare a contare milioni di persone ogni giorno. I test di massa, sebbene rappresentino un costo notevole per i sistemi sanitari, in realtà potrebbero essere una delle vie più economiche per uscire dalla crisi. Secondo Feng Zhang, ricercatore al MIT’s Broad Institute di Boston, servono dei test rapidi e affidabili che sia possibile svolgere in un laboratorio di analisi ma anche a casa propria, per accelerare i tempi. Nel caso dei test svolti in laboratorio, per ridurre i tempi di attesa servono macchinari in grado di processare nello stesso momento un gran numero di campioni. Nel laboratorio di Zhang si sta lavorando proprio per sequenziare nello stesso momento circa 100mila campioni al giorno, per un costo di sette dollari a test. Una soluzione utile ma non sufficiente, dato che un inconveniente dei test di massa svolti in laboratorio è la logistica: non solo serve una grande quantità di reagenti e materiali da consegnare nello stesso luogo, ma potrebbero comunque presentarsi problemi e ritardi nella raccolta dei campioni e nella consegna dei risultati.
L’ideale sarebbe avere un test che le persone possano fare direttamente a casa propria, anche più volte al giorno, ottenendo il risultato in pochi minuti. Ecco perché molte aziende biotecnologiche si stanno concentrando sulla realizzazione di test basati non più sulla ricerca di anticorpi, ma direttamente sull’identificazione del materiale genetico del virus.
I primi test genetici relativi al Sars-Cov-2 sono stati distribuiti in tutto il mondo dall’Organizzazione mondiale della sanità a partire dallo scorso gennaio. Sono però test dal protocollo complesso e costoso, che devono essere svolti per forza all’interno di grandi laboratori con macchinari per la Pcr (reazione a catena della polimerasi), tecnica che consente di amplificare il materiale genetico – cioè di moltiplicare i frammenti di acidi nucleici presenti in un filamento di Dna – per ottenerne una quantità sufficiente all’analisi. La complessità del test fa sì che l’attesa per i risultati sia piuttosto lunga: per completare tutta la procedura ci vogliono dalle sei alle sette ore, a cui però bisogna aggiungere il tempo impiegato per la consegna e il ritiro dei campioni. Normalmente, quindi, per ottenere il risultato di un test genetico passano almeno 24 ore. Per questo i ricercatori sono al lavoro proprio per limitare questo problema, e la soluzione potrebbe essere l’utilizzo del sistema CRISPR-Cas9, un sistema di sequenze geniche che si ripetono a intervalli regolari a cui sono associati dei geni che codificano enzimi in grado di tagliare gli acidi nucleici. Questo sistema è stato originariamente scoperto nei batteri, nei quali agisce proprio come difesa contro i virus.
Un esempio di questi test, in corso di validazione ma ancora non testato su campioni provenienti da pazienti, è la piattaforma Sherlock, realizzata nei laboratori del MIT nel 2017 e riadattata proprio per far fronte alla pandemia di COVID-19. Il test è veloce – richiede solo un’ora – e molto economico: non si superano i 60 centesimi di dollaro. Il sistema CRISPR, in questo caso, viene utilizzato come una sorta di “allarme molecolare”: l’enzima riconosce l’Rna virale e ne evidenzia la presenza visivamente, come avviene per i test di gravidanza. Ma perché diventi un test utilizzabile da chiunque serve ancora qualche semplificazione, su cui Zhang e altri ricercatori stanno ancora lavorando. Anche la piattaforma DETECTR usa la stessa tecnologia, con un procedimento che permette di confermare la presenza del virus attraverso il rilascio di molecole in grado di emettere un segnale luminoso rilevabile dagli strumenti. Tutto questo in meno di 45 minuti. La tecnologia PAC-MAN (Prophylactic Antiviral CRISPR in huMAN cells), invece, non solo identifica il materiale genetico del virus ma ne blocca la replicazione, interrompendo il ciclo vitale del SARS-CoV-2 e fermando l’infezione. Questa tecnologia era già in fase di studio contro i virus influenzali quando è scoppiata l’emergenza COVID-19, ma anche in questo caso non è ancora dotata di procedure standardizzate – non sono stati ancora effettuati test né su animali né sull’uomo – e di validazione.
Ed è proprio questo il problema: la scienza ha bisogno di tempi lunghi per standardizzare e validare le procedure, tempi che in una situazione di emergenza come quella attuale non ci sono. Non è ancora chiaro se la tecnologia CRISPR sarà effettivamente in grado di contribuire alla lotta contro la COVID-19, ma questo si può appurare solo con ulteriori esperimenti. “Questa emergenza ha evidenziato una grave lacuna nel mercato della diagnostica molecolare”, ha detto Trevor Martin, fondatore della Mammoth Biosciences, l’azienda che sta lavorando sulla piattaforma DETECTR. Probabilmente questa lacuna ha influenzato il modo in cui le diverse nazioni hanno affrontato la pandemia. Se Paesi come Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud hanno avuto la possibilità di testare gran parte della popolazione è proprio perché, con lo stanziamento negli ultimi anni di fondi per la ricerca e per la prevenzione delle emergenze sanitarie, erano più preparati ad affrontare una pandemia, forti anche dell’esperienza acquisita durante l’epidemia di SARS tra il 2002 e il 2004.