La mia casa ha più porte del necessario. Ieri, per la prima volta in due anni, forse a causa della noia mi è venuto in mente di contarle. Sono dieci. Tre delle quali, completamente inutili, si affacciano sulla stessa stanza. Dicono che negli anni Cinquanta funzionasse così, che allora le esigenze fossero diverse rispetto a oggi. Forse è per questo che l’unico angolo impossibile da chiudere è quello che, provocatoriamente, chiamiamo il mio studio. Una lingua larga 122 centimetri e lunga poco più di due metri, un istmo bianco che collega la fine del mio salotto con l’inizio di quello del vicino.
Di lui non so niente. Non ho mai visto la sua faccia, non l’ho mai incontrato sul pianerottolo, non ho neanche mai letto il nome sul suo campanello. Gli unici contatti fra di noi sono avvenuti di sera. Quando io fissavo lo schermo del computer e lui era seduto sul divano. Era allora che sentivo filtrare qualcosa dal suo salotto. Ed erano sempre le solite due voci: quella di Amadeus e quella di Pierluigi Pardo. Per pochi attimi le nostre diverse solitudini finivano per avvicinarsi. Due esistenze comunicanti tenute a debita distanza da una parete.
Il senso di questi giorni è tutto lì, in un muro. O almeno lo è per me. Perché all’improvviso sono stato risucchiato in un paradosso: ermeticamente isolato dall’esterno, completamente esposto a tutti i rumori provenienti dall’interno del mio appartamento. Senza possibilità di ovattarli, dzittirli o ignorarli. Non un grande problema se non fosse per un unico particolare. Già da due settimane, ossia da prima delle misure straordinarie del governo per le Zone Rosse, da prima delle nuove autocertificazioni per poter andare a fare la spesa, ho iniziato nuovamente a lavorare da casa. Con un figlio di due anni che non può più andare al nido e con una moglie che continua ad andare regolarmente in ufficio. La situazione che al momento stanno vivendo – nella stragrande maggioranza dei casi – le mamme.
Nel giro di qualche ora mi sono ritrovato solo. Completamente. Con il mio lavoro da portare avanti, ma anche con pannolini da cambiare, letti da rifare, lavatrici da riempire, pranzi da preparare, panni da stendere, con riposini da far rispettare, pericoli da disinnescare, capricci da stroncare.
Scrivere di sport durante una pandemia è un esercizio piuttosto complesso. Farlo da casa, con un bambino così piccolo, diventa una corsa a perdifiato verso l’esaurimento. Ogni tentativo di concentrazione viene fagocitato dalla sigla di Topolino e gli amici del rally. Ogni parola digitata sulla tastiera viene trafitta da una richiesta. Ogni sforzo di pianificazione viene calpestato da un imprevisto. Ancora. E ancora. E ancora. Perché il lavoro da remoto, in questo caso, può essere tutto fuorché smart.
Da quando lavoro da casa mi alzo un’ora prima del solito. Impagino, sfoglio i giornali, butto giù le idee per i pezzi, prendo appunti. Poi mi faccio un caffè e leggo qualche pagina di Perdito Street Station, un libro di China Miéville. Lui si sveglia qualche minuto prima delle sette. Sempre. Prima con un lamento, poi con quattro lettere scandite alla perfezione: “Papà”, grida. “Latte”, precisa. Anche se è mia moglie a preparargli la colazione. Poi comincia il nostro rituale mattutino. Una liturgia che si ripete sempre identica a sé stessa. Giorno dopo giorno, dopo giorno. Via il pigiama. Via il pannolino. Dritto in bagno. Su un nuovo pannolino. Su i vestiti puliti. Su le scarpe per stare in casa.
Quando sento la redazione sono già immerso nella fase due. È un ciclo piuttosto complesso che inizia con la lettura a voce alta del libro Cars – Squadra Emergenze. Per tre volte consecutive. Con una voce diversa per ogni personaggio. Segue una sessione della durata variabile di disegno e un’uscita sul terrazzino per le bolle di sapone. Tutto senza contare alcune notevoli improvvisazioni: il ciuccio lanciato dalla finestra giù nel giardino del vicino, le macchinine seppellite nella terra delle piante, quelle lasciate affogare nel secchio con il mocio, quelle pulite con una generosa cascata d’acqua (ovviamente sul divano), quelle di metallo che mi vengono scagliate contro mentre sono al telefono con i collaboratori.
Lavorare da casa durante la pandemia mi ha portato a cercare risposte vecchie a domande nuovissime. Riguardo al tipo di giornalista che voglio essere in questi giorni imbevuti di tensione. Ma, soprattutto, riguardo al tipo di padre che voglio essere nel corso della mia vita. Una riflessione molto meno scontata di quanto possa apparire.
Perché quando penso a mio padre, penso a un vuoto, a una fotografia, a un’immagine bidimensionale dai colori opachi. Perché mio padre è morto troppo presto. Ed è morto in India. Era ministro plenipotenziario, incaricato di firmare dei trattati di cooperazione internazionale. Era il 1987 e io avevo appena cinque anni. Di lui ho solo due ricordi. Il primo è di me in braccio a mia madre. Piango perché non voglio dargli il bacio della buonanotte, perché non voglio sentire la sua barba ispida sulla mia pelle. Il secondo è di noi due al Colosseo. Con lui che mi scatta foto sotto un cielo limpido. Non ho molta voglia di ammetterlo, ma penso che questa seconda immagine sia più il prodotto artificiale di una lunga fase di sedimentazione di sogni e speranze. Tutto quello che so di lui l’ho imparato leggendo il suo diario. Oppure ascoltando i racconti di mia madre. Ho dovuto mettere insieme frammenti, cucire insieme parole rubate. Perché parlare esplicitamente di mio padre significava fare i conti con un dolore troppo grande da affrontare, e costringere gli altri a farsene carico, a ricordare. Significava portarli indietro a quando gli incaricati del Ministero sono venuti a casa nostra per darci la notizia, a quando il suo feretro è rimasto bloccato per due giorni all’aeroporto, chiuso in una cassa doppia. Voleva dire maneggiare di nuovo la presenza costante di un’assenza.
Dato che non ho avuto un esempio da riprodurre (anche involontariamente), nel costruire la mia figura genitoriale ho cercato di farmi guidare dal buon senso, in una serie continua di addizioni e sottrazioni per non risultare né troppo oppressivo né troppo lontano. Eppure la morte di mio padre ha influito enormemente sulla mia scelta di essere un padre presente. Un padre che non si risparmia, certo, ma pur sempre un padre che fino a qualche settimana fa tornava a casa la sera, dopo essere stato tutto un giorno in redazione, e che aveva a disposizione giusto il tempo del bagnetto, della cena, di una favola prima di dormire.
Lo smart working ai tempi della COVID-19, però, sta trasformando il mio modo di essere padre. Lo sta rendendo un’esperienza immersiva, un impiego a tempo pieno come mai avrebbe potuto essere in condizioni normali. Sette giorni su sette. Ventiquattro ore su ventiquattro. Un lavoro che deflagra in tutta la sua complessità perché difficilmente compatibile con lo svolgimento a distanza della propria professione. A meno che non si abdichi, a meno che non si bari, parcheggiando il proprio figlio davanti al televisore per ore intere, si è chiamati a scegliere uno dei due piatti della bilancia. Una specie di perversa roulette russa che ti illude di avere la possibilità di decidere. O famiglia o lavoro. O affetti o carriera. Esattamente la stessa situazione con cui devono fare i conti quotidianamente le donne, anche solo quando valutano la possibilità di diventare madri.
Da giorni mi trovo a ricoprire tanti ruoli diversi tutti insieme. Quello del papà, quello della mamma, quello delle educatrici del nido, quello dei nonni che devono restare chiusi in casa e non possono darci una mano. Tutte figure che si spartivano, seppur in parti disuguali, quelle responsabilità che ora si concentrano esclusivamente su di me, in contemporanea. E insieme alle responsabilità, si moltiplicano anche le scelte che sono chiamato a prendere, le libertà che posso concedere o negare. Tutto con la consapevolezza che la differenza fra un sì o un no che esprimo mentre sono preso anche da altre cose non si esaurisce in un secondo, non si scompone come una bolla di sapone, ma rimarrà nel tempo, andrà a formare un piccolo atlante della personalità di un altro individuo.
Così sto cercando di imparare ad avere pazienza, a mantenere la calma, a non alzare gli occhi al cielo, a trovare le risposte giuste, a controllare gli sbalzi di umore, a non farmi vedere triste, a non dare l’idea di essere preoccupato anche se in questi giorni mi sento, ci sentiamo tutti, come su una barchetta di carta in balia di onde altissime. Ma in questo periodo ho imparato anche che la frase “l’importante è la qualità del tempo che passi con i tuoi figli” non è vera. O, almeno, non lo è totalmente. La quantità conta eccome. Per farli abituare alla nostra presenza, al nostro ruolo. Anche quando giocano da soli e noi facciamo altro. Fino a qualche giorno fa, quando tornavo a casa ero io che sottraevo mio figlio al gioco per spogliarlo e portarlo a fare il bagnetto. Per lui vedermi era diventato sinonimo di rotture di scatole, di noia, di tempo perso a farsi lavare e pulire. Tanto che ogni volta che mi vedeva transitare dal salotto mi puntava il ditino contro e mi diceva: “Papà, vai!”. Ora, invece, quando provo a raggiungere il computer è lui a chiamarmi, a coinvolgermi in giochi nuovi, che sono diventati un codice comunicativo esclusivo fra me e lui.
Per questo lo smart working ai tempi della pandemia di COVID-19 sta modificando anche il modo in cui mio figlio interagisce con me. Soltanto ieri mattina ha pronunciato 84 volte la parola papà. In poco più di quattro ore. Praticamente 21 volte l’ora, una ogni due minuti e mezzo. E non mi ha solo chiesto di leggere Cars – Squadra Emergenze, di farlo colorare, di farlo giocare con le bolle di sapone, di dargli la merenda. Un paio di volte è sbucato dal nulla giusto per abbracciarmi e dirmi “Grazie, papà”, prima di correre di nuovo a sotterrare le macchinine o a metterle in fila una dietro l’altra sul bracciolo del divano. Certo, per lui non sono ancora una figura totalmente sovrapponibile a quella della madre, eppure da qualche giorno per mio figlio non sono solo il genitore più severo, ma un punto di riferimento diverso. Ho assunto una funzione diversa e meno scontata.
Una delle espressioni che ho sentito più spesso in questo periodo è “riempiamo la quarantena”. Di libri, di serie tv, di film, di documentari, di musica, di video. Come se avessimo il bisogno di anestetizzare questo momento, di distrarci, di non confrontarci con il silenzio. Per una serie di circostanze nell’ultimo periodo, invece di rallentare o di ritrovarmi con spazi di tempo vuoto, sono stato costretto ad accelerare, a restare più concentrato, a fare i conti con rumori che non avrei mai immaginato. Ma, soprattutto, mi sono ritrovato a riempire la mia quarantena di persone, anzi, di una persona, nel tentativo non certo facile di comprendere fino in fondo il significato di un’altra parola che abbiamo sentito molto spesso negli ultimi mesi: “responsabilità”. Quattordici lettere che hanno in significato molto più complesso di quanto potessi immaginare.