La SARS-CoV-2 è ormai diffusa in Europa: in Spagna, dopo i primi due casi rispettivamente il primo e il 10 febbraio, la situazione è rimasta più o meno stabile fino al 9 marzo, prima di precipitare. Il governo spagnolo ha dovuto agire con determinazione: il 15 marzo, mentre i dati delle infezioni e dei morti si impennavano, il presidente Pedro Sánchez annunciava lo stato d’emergenza, ordinando la chiusura di varie attività e applicando misure di contenimento simili a quelle italiane, che obbligano le persone a rimanere nelle proprie abitazioni e danno loro il permesso di uscire solo per acquistare cibo o medicinali e per recarsi al lavoro o in ospedale. Non mancano le decisioni difficili: la Catalogna e la Comunità Autonoma di Madrid, ad esempio, hanno fatto sapere che eseguiranno il tampone solo alle persone che presentano una sintomatologia grave e tra il personale ospedaliero, perché il sistema sanitario – così come è successo in Italia – non è in grado di fare test a tappeto come raccomanda l’Oms e come viene fatto in Corea del Sud. Come gli altri Stati, anche il governo spagnolo ha previsto un piano di investimenti da 200 miliardi di euro per fronteggiare l’epidemia anche sul piano economico-finanziario a lunga scadenza: si tratta della maggiore cifra mai spesa nella storia recente dal Paese iberico. Tra le misure annunciate c’è la possibilità per lo Stato di requisire le strutture sanitarie private e i loro materiali, come mascherine e kit per eseguire i test. L’urto che si prepara a reggere la Spagna è pari a quello italiano e infatti anche da noi viene messa in campo un’iniziativa simile, con la possibilità di stipulare accordi da parte del governo con le strutture private.
La decisione del governo iberico è stata annunciata dal ministro della Sanità Salvador Illa nella notte di domenica 15 marzo e si traduce nell’obbligo delle strutture sanitarie private di mettere a disposizione del servizio sanitario dei governi delle Comunità Autonome gli spazi e il personale necessari. Da parte del Ministero è arrivato anche l’avviso a tutte le aziende del settore farmaceutico e alle persone fisiche o giuridiche che siano in possesso di materiale necessario contro il contagio (principalmente mascherine e gel disinfettante a base alcolica) a notificarlo entro 48 ore.
La requisizione è probabilmente, insieme alle restrizioni imposte alla circolazione dei cittadini, il provvedimento più forte. Si tratta di un atto attraverso il quale una pubblica amministrazione priva una persona del suo diritto di proprietà o di possesso di un bene; ha carattere di eccezionalità ed è adottata per gravi e urgenti necessità pubbliche, in questo caso sanitarie. La requisizione può essere “in proprietà” o “in uso”: mentre la prima riguarda solo beni mobili (anche beni mobili registrati, come i veicoli), la seconda può avere a oggetto anche beni immobili e aziende. Per attuare una requisizione, non basta un motivo di pubblico interesse, ma è necessaria la presenza di gravi e urgenti necessità, tipiche delle situazioni impreviste come lo scoppio appunto di un’epidemia, la cui virulenza in Lombardia al momento sembrerebbe più grave che altrove. Attraverso lo strumento della requisizione il sistema sanitario nazionale può trasferire le risorse dei privati al pubblico.
Con il decreto cosiddetto Cura Italia il governo italiano ha stanziato 25 miliardi che assegna al supercommissario incaricato poteri speciali, tra cui le misure più incisive, simili a quelle spagnole. La fornitura delle attrezzature sanitarie e il rafforzamento delle strutture ospedaliere e delle unità di terapia intensiva, infatti, potranno essere svolti anche tramite la requisizione di immobili, in particolare ospedali privati. Oltre a quella che riguarda le strutture sanitarie, esisterà la possibilità per i Prefetti di requisire anche gli alberghi per allestire aree di accoglienza per chi è sottoposto a quarantena. Sul piano sanitario si tratta più che altro di una forma di collaborazione tra pubblico e privato, come spiega La Repubblica. Sembra realizzarsi, così, quanto auspicato anche dal segretario della Cgil Maurizio Landini, che, durante la trasmissione Mezz’ora in più ai primi di marzo, appellandosi allo sforzo straordinario messo in campo dalla sanità pubblica, ha chiesto che anche quella privata facesse lo stesso. E i privati, in effetti, lo hanno fatto: Poliambulanza di Brescia ha messo a disposizione otto postazioni di terapia intensiva, come sottolinea l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera, mentre il San Raffaele ha inizialmente contribuito con quattro letti in terapia intensiva per i pazienti positivi alla COVID-19 (ormai tutti occupati) e ha poi realizzato un nuovo reparto da 14 letti; la disponibilità è arrivata anche da parte di Humanitas. Dagli ospedali privati arrivano anche i medici, tra cui i rianimatori del lombardo Gruppo San Donato, che si riversano negli ospedali delle zone più colpite per supportare il lavoro dei colleghi.
Come da indicazioni del decreto – che distribuisce i fondi tra sistema sanitario nazionale e Fondo per le emergenze nazionali della Protezione civile, a cui vanno 1 miliardo e 65 milioni di euro – il Sistema sanitario nazionale può ora impiegare in ambito pubblico risorse umane e materiali privati. Su richiesta delle Regioni, questi metteranno a disposizione il proprio personale per le attività sanitarie legate all’emergenza. Inoltre, potranno essere oggetto di requisizione anche i locali e le apparecchiature disponibili, che siano in uso o in proprietà per fronteggiare l’epidemia da COVID-19. Questo fino al 31 luglio 2020, quando si prevede che la situazione sarà tornata alla normalità, anche grazie al probabile effetto negativo del caldo sul contagio. Per le operazioni di requisizione di hotel, i Prefetti hanno a disposizione fino a 150 milioni: andranno ai proprietari delle strutture requisite come indennizzo che copre il valore della struttura. Non si tratta, infatti, di un prestito a titolo gratuito al servizio del pubblico, senza ottenere niente in cambio, lo Stato dovrà provvedere al pagamento di tutti gli indennizzi alle strutture private, le quali per altro, pur apportando un grosso aiuto non sono distribuite in modo uniforme sul territorio italiano, specialmente in Lombardia, una delle regioni in cui la sanità privata ha maggiore peso. Nonostante il loro apporto – che, come ha sottolineato Gallera, si è dimostrato utile da subito, anche con la disponibilità a ridurre drasticamente i ricoveri non urgenti, proprio per meglio supportare l’emergenza –, i preziosissimi posti letto in terapia intensiva nel privato sono circa 800 su un totale di circa 5.300, ma sono concentrati in pochi territori, come riporta Andrea Capocci sul Manifesto.
Quando l’emergenza sarà rientrata e tutto a poco a poco tornerà alla normalità, sarà il momento di riflettere sul rapporto tra sanità pubblica e privata in Italia; è un rapporto sempre più sbilanciato, in un contesto – specialmente se emergenziale come quello che stiamo vivendo, che si configura come un pericolo per la salute collettiva – che viene trainato dal pubblico, con risorse sempre più risicate; secondo il rapporto Gimbe 2019 in dieci anni sono stati tagliati al sistema sanitario 37 miliardi di euro di finanziamenti. Con il 40% dei servizi erogato da strutture private, il sistema sanitario italiano è sempre meno pubblico: la sanità privata in Italia oggi conta un totale di oltre 300 strutture (su più di 500 associate), che mettono a disposizione il 20% dei posti letto totali, pur con grosse variazioni regionali, e danno lavoro a più di 77mila addetti (ma si tratta di un dato in crescita) tra medici, infermieri e tecnici. Secondo la Commissione europea, nel 2017 la spesa sanitaria pro capite in Italia era del 15% inferiore rispetto alla media dell’Unione: nel 2018, in rapporto al Pil, siamo arrivati al 6,5, contro una media dei Paesi Ocse del 6,6%. Si contano poi test non necessari, frodi, inefficienze amministrative e prestazioni sanitarie non adeguate per un totale di quasi 21,6 miliardi di euro persi ogni anno. Si dovrà prendere una decisione riguardo alle risorse accaparrate in fretta e furia per fronteggiare l’emergenza: non solo in termini di strutture e strumentazione, ma anche di personale. E decidere se tornare nella situazione di carenza cronica, impreparati nell’eventualità di un’altra emergenza, o se prendere provvedimenti di lungo termine.
I tagli avrebbero potuto (e dovuto) essere evitati, se l’evasione fiscale fosse stata affrontata diversamente. Infatti, se è vero che negli ultimi vent’anni il denaro recuperato dall’evasione è quadruplicato, passando dai 4,4 miliardi di euro del 2006 agli oltre 19,2 miliardi recuperati nel 2019, restano cifre troppo basse in relazione all’evasione non perseguita: più di 107 miliardi di euro nel 2016. Nel totale sono compresi anche i contributi previdenziali evasi, il cui impatto è comunque minoritario: a pesare decisamente è l’evasione fiscale vera e propria, per circa 96 miliardi di euro, per lo più da Iva e Irpef da lavoro autonomo e impresa, sempre senza considerare le attività illegali (prostituzione, spaccio, eccetera). Non a caso è circa la stessa cifra che l’Italia impiega nella spesa sanitaria pubblica e quasi il doppio della spesa per l’istruzione. Come riporta il fact checking di Agi, se l’evasione fiscale italiana raggiungesse la media europea, avremmo risorse sufficienti per azzerare il deficit di bilancio (circa due punti percentuali di Pil) e avanzerebbe un surplus. Esaltiamo la generosità degli italiani nelle donazioni, ma anziché donare, spaventati di fronte all’emergenza, sarebbe stato meglio pagare le tasse, e pagarle tutti, per provvedere ai servizi pubblici tra i quali la salute è ai primi posti dei diritti dei cittadini.