Oltre a essere una delle cosiddette passioni tristi, la paura è un’emozione istintiva molto importante per la sopravvivenza: è infatti ciò che ci spinge a metterci in salvo dai pericoli. Eppure, se questo discorso era fondamentale per l’uomo dell’antichità – che viveva a stretto contatto con la natura ed era costantemente esposto ai pericoli dell’ambiente che lo circondava – oggi si rivela sempre più essere un fattore di stress che impatta anche negativamente nella nostra salute mentale e fisica. Esistono infatti paure oggettive e paure ataviche, immotivate, nevrotiche, ansie nutrite da timori irrazionali. La paura fa leva sul sistema simpatico (che produce l’adrenalina e il cortisolo, ormoni necessari per le risposte d’allarme). Quando la paura assume questi contorni patologici si trasforma in stress cronico e diventa un vero e proprio limite, fino a sfociare talvolta negli attacchi di panico, che appunto influenzano tangibilmente e in modo anche profondamente negativo la vita quotidiana di chi ne soffre.
Ma la paura, oltre a limitare il singolo, incide negativamente anche sulla collettività, attraverso comportamenti aggressivi e irrazionali. Spesso chi è vittima di una di queste paure le riversa infatti sul mondo che lo circonda, perché ne è letteralmente sopraffatto, schiacciato, e le usa come giustificazione anche di comportamenti offensivi o semplicemente assurdi, che a volte possono risultare pericolosi per se stesso e per gli altri. La paura non va stigmatizzata e ignorata, va accettata e compresa, certo, ma nell’ottica di trovarne una soluzione. E soprattutto la paura immotivata che alcune persone nutrono nevroticamente non deve certo ledere la libertà e la sicurezza degli altri.
Se è importante comprenderla, non è certo corretto giustificare la psicosi, perché è pericolosa per la collettività. Per queste ragioni, un popolo spaventato è un popolo più facilmente governabile, perché un popolo spaventato è un popolo irrazionale, aggressivo e potenzialmente pericoloso. A maggior ragione se questa paura come spesso accade nasce dall’ignoranza (come scriveva Elie Wiesel ne La notte) o da un momentaneo oscuramento della ragione, e non ha quindi una giustificazione tangibile. Questa apologia in un certo senso materna della paura, per cui si professa di non giudicare e di non criticare queste forme psicotiche collettive, finisce per giustificare indirettamente anche quegli episodi di violenza nati da quella stessa paura, in cui affondano le radici come sappiamo anche le più grette forme di razzismo e xenofobia, di paura per l’altro, per il diverso. Oggi il virus ha preso i contorni dell’altro. E la paura che suscita non va giustificata, va scandagliata e ridotta, e il modo migliore per farlo è risvegliando la nostra razionalità, come mezzo principale per controllare le nostre emozioni senza esserne vittime. Se qualcuno mi fa pazientemente notare che sto attuando un comportamento assurdo e irrazionale, magari la mia paura piano piano si dissolverà, o sarò portato a fare uno sforzo per tenerla sotto controllo.
Come ha fatto notare il filosofo Giorgio Agamben su II manifesto (duramente criticato da alcuni per la sua posizione “razionale” in nome della negatività di qualsiasi giudizio e della poesia della paura, della perdita del controllo): “L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”. Il bisogno di panico collettivo origina ancora una volta dal sistema contemporaneo, dall’insicurezza, dalla mancanza di appagamento, dal bisogno di trovare un capro espiatorio a ciò che troviamo incomprensibile e incontrollabile. Questo lo aveva già fatto notare anche Zygmunt Bauman, in Vita liquida, parlando del sistema capitalista e della paura e del bisogno di sicurezza della cittadinanza, in particolare nel capitolo “Rifugiarsi nel vaso di Pandora. Ovvero: paura, sicurezza ‘and the city’”. “In mancanza di conforto esistenziale ci accontentiamo ormai della sicurezza, o del simulacro della sicurezza”, cita a sua volta il filosofo dall’editoriale che apriva un numero speciale di Hedgehog Review. Il terreno su cui si fondano le nostre prospettive di vita è malfermo e non possiamo più contare sul mito del progresso. Per questo siamo insoddisfatti, arrabbiati e spaventati.
La paura di fronte al coronavirus è dunque la stessa che il popolo vittima delle proprie passioni più oscure prova di fronte allo straniero che chiede asilo. Questo deve essere chiaro. E in questo perimetro non può esserci una distinzione tra paura positiva e una negativa. Ironicamente tra i cittadini più spaventati dal coronavirus figurano gli elettori della Lega e del Pd. Il governo e le amministrazioni italiane, vittima della loro stessa ignoranza, mancano di una visione, e nel dubbio hanno giustamente messo le mani avanti, per paura di subire le ritorsioni che puntualmente sono comunque arrivate da più fonti. Nessuno vuole essere accusato di aver scatenato un’epidemia, meglio prendere disposizioni precauzionali acriticamente elevate e mettere in ginocchio il Paese, piuttosto che assumersi questa responsabilità, soprattutto se si hanno le idee confuse quanto i cittadini che si dovrebbero tutelare.
Davide Grasso su minima&moralia risponde a sua volta ad Agamben, adducendo argomentazioni retoriche che sembrano costruite più per attaccare Agamben piuttosto che i contenuti della sua riflessione. Grasso dice che a Torino le persone sono serene. Bene, a Milano – che conta un ordine di contagi ben superiore ed è molto più vicina ai focolai – no, non lo sono. Alcuni ostentano tranquillità, ma fuori dalle bolle la maggior parte delle persone è spaventata e confusa. Molti ristoranti – non solo quelli gestiti da persone di origine cinese – sono pressoché deserti, perché la gente ha paura di trovarsi vicina ad altre persone. La metropolitana è irriconoscibile, per non parlare dell’assurda razzia dei supermercati di domenica scorsa (sì, è avvenuta ovunque tranne che a Brera). E delle code davanti alle farmacie per le mascherine. No, Milano non sembrava affatto una città tranquilla, come forse è Torino, probabilmente perché al momento è stata meno colpita.
Siamo cresciuti pensando di avere il diritto non solo alla sopravvivenza, ma alla felicità. Del secondo ci stiamo lentamente convincendo sia un’illusione, o comunque qualcosa di molto diverso da quello che avevamo interpretato, del primo stiamo capendo in questo periodo che è una semplice costruzione politica. In altri Paesi, che chiamiamo sottosviluppati, dove la vita per una serie di ragioni non è un diritto, o non lo è per tutti, si nasce o si impara a convivere con l’assenza di questi diritti che consideriamo inalienabili, e il rapporto con la morte è paradossalmente più spontaneo, non drammatico, piano, insignificante, normale. Non esistono tabù sulla morte, non è qualcosa che si rifugge, semplicemente perché è un evento tristemente presente e quotidiano. In Europa, con il coronavirus, anche questa convinzione artificiale ci sta crollando davanti agli occhi. Il contagio è democratico eppure le cure non lo sono.
I paranoici del complotto non sono certo rappresentati da Agamben, sono quelli che credono che i politici fossero già a conoscenza di questa variante del coronavirus nel 2009, a causa di un fotomontaggio. E questi di solito sono gli elettori di Lega e M5S – noti per fondare già la loro base di consenso sulla creazione sistematica e mirata di fake news – i razzisti che giustificano il loro razzismo. I comuni mortali che verrebbero derisi da questi paranoici del complotto, tra cui figurerebbe Agamben, sono persone, per quanto a volte colte, che si sono fatte prendere dal panico. E forse fare ironia su chi ha paura è un modo – per quanto semplice e forse grezzo – di esorcizzare la paura collettiva. Se non si può più far riferimento a una suddivisione manichea del bene e del male – a maggior ragione nell’epoca della post-verità – forse non dovremmo giudicare nemmeno chi si prende gioco di certi comportamenti dettati dall’ignoranza e dalla psicosi. Forse dovremmo preoccuparci molto di più per il crollo economico, che per i possibili rischi di contagio, guardando con sospetto anche le persone che aspettano insieme a noi di attraversare la strada e nascondendo il naso nel collo della giacca. Il sistema sanitario italiano, nonostante le molte critiche, è uno dei migliori del mondo, ciononostante è importante cercare di mantenere la diffusione del virus il più possibile contenuta, consapevoli del fatto che come diversi studiosi hanno fatto notare il virus è probabilmente in circolazione da ben prima che venisse riconosciuto. Nel frattempo in Cina è stato trovato il primo cane positivo al virus. E qui si apre un interessante campo di discussione su come le società considerano gli animali, su cosa sia socialmente accettato e cosa no. Il vero problema lo dovranno affrontare i Paesi poveri, in cui il divario di classe è ancora più elevato che nel nostro. Non c’è una cura – un equivalente del vaccino – neanche per il cancro, eppure continuiamo a consumare prodotti dichiaratamente cancerogeni. La psicosi collettiva è indubbiamente stata nutrita dal tam tam mediatico, da testate che ora dopo ora contribuivano a far montare l’ansia, spesso diffondendo notizie che si rivelavano false, per poi contemporaneamente denunciare chi faceva lo stesso. Per non parlare dell’assurda retorica sui tamponi, sostenuta dai media, che fa sì che chiunque si senta in diritto possa mettere in discussione la diagnosi del personale medico. Ancora una volta, i dati da soli non bastano, bisogna saperli interpretare, perché possono cambiare profondamente il loro significato a seconda della lettura che se ne fa.
Sicuramente questa occasione porta sul tavolo diversi problemi della contemporaneità ancora irrisolti. Sembra, anzi, ci abbia scossi da un certo torpore ontologico, visto che per la prima volta dopo decenni sentiamo la nostra incolumità a rischio. Invece di accusarci a vicenda potremmo integrare le diverse posizioni come un arricchimento, senza pensare di avere ragione a priori, visto che solo gli eventi potranno dimostrarlo. Quelli che criticano chi critica a ben vedere attuano lo stesso comportamento di esclusione tipico del potere, sfruttando semplicemente un altro linguaggio, che si forgia di termini morbidi ma che a ben vedere si sviluppa secondo le stesse regole totalitaristiche.