Sono nata in un piccolo paese del Sud Italia, luogo in cui, durante la mia adolescenza era difficilissimo trovare qualcosa da fare fuori, quindi si restava in famiglia, con la compagnia della televisione, di un libro o della propria solitudine, conquistata chiudendosi una porta alle spalle: quella della propria camera. Forse per questo, oggi, sono strutturalmente preparata a stare buona parte del tempo in casa, sola, con la testa china sul pc a lavorare, anche se abito in città. Inoltre, un paio di mesi fa, a causa di un problema di salute, per quasi due mesi mi è stato assai difficile camminare e dunque uscire. La mia è un’esperienza che solo oggi si rivela, in qualche maniera, “costruttiva”, eppure, davanti al lockdown e all’emergenza COVID-19, la paura ha preso il sopravvento insieme alla tristezza, al senso di impotenza e alla rabbia e i miei ritmi, quelli che consideravo ormai a prova di bomba, sono completamente saltati, insieme ai miei obiettivi. Certo, a parte il lavoro, ora potevo tranquillamente passare il tempo in pigiama, guardando serie tv e film, leggendo libri, scrollando i social e chattando con gli amici, senza sentirmi né una paria e neppure in colpa. Al terzo giorno però ho scoperto che la cosa non mi faceva bene: ancora una volta, avevo bisogno di gestire il tempo, ed era un tempo – il mio, il nostro – pieno di angoscia.
Niente cinema, niente amici, niente cene fuori. Il terrore di ammalarsi, o che si ammali qualcuno dei nostri cari. L’eventualità che ciò succeda davvero e che, in alcune zone del Paese, si fa sempre più concreta, sempre più realtà. I racconti dagli ospedali, le catene social, le famiglie lontane, i negozi chiusi, le file ai supermercati. Le mascherine, di cui fino a qualche settimane fa ridevamo, imitate nella funzione e nelle forma da sciarpe e foulard. I piani che tutti avevamo, i concerti a cui volevamo andare, i viaggi che volevamo fare sono saltati. Il sole e la primavera sembrano una specie di invito a contravvenire alle ordinanze. E le giornate sono scandite dalle immagini dei telegiornali, dalle dirette della Protezione Civile, dai discorsi di Conte, dai flash mob sui balconi, sempre più fievoli. No, non è tempo libero, questo, a meno di non chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie, mettere una museruola anche ai pensieri. E insieme ai rischi fisici, dobbiamo essere vigili anche su quelli psicologici, direttamente connessi all’isolamento sociale e al clima di inquietudine generale per ciò che ciò che viviamo e ciò che ci aspetta. “Andrà tutto bene”: è questa la frase topica, ma anche nel ripetersela c’è un pericolo: quello di chiedersi quando e di non avere una risposta. Davanti alla richiesta di coordinate temporali, ecco che la nostra razionalità vacilla e si riaffaccia la paura. È giusto, allora, ricordare a noi stessi e a tutti quelli che ci circondano, che sì, non bisogna farsi prendere dal panico e occorre tenere alta la speranza, ma per farlo sul serio dobbiamo renderci conto che non possiamo controllare ciò che ci circonda: l’unico ambito su cui possiamo intervenire positivamente riguarda l’oggi, il nostro privatissimo vivere quotidiano hic et nunc, un giorno dopo l’altro, con tutte le difficoltà che ciò comporta.
Scriveva Marcela Serrano ne L’albergo delle donne tristi che “L’inoperosità è proibita per prevenire la depressione”: per questo, alle ospiti in cerca di rifugio che sono al centro della narrazione, viene dato un dettagliato programma di attività quotidiane. È un consiglio che replica, in qualche maniera, quello che dà oggi Judith Matloff, scrittrice e professoressa di giornalismo: lei l’ha imparato da corrispondente dai luoghi di guerra, catastrofi e ogni sorta di emergenza, facendo esperienza diretta di situazioni difficili, come, ad esempio, trovarsi intrappolata in una camera d’albergo durante la guerra civile in Angola all’inizio degli anni Novanta. “La prima cosa è accettare che questa è la nuova normalità, finché dura,” scrive sul Columbia News, suggerimenti ripresi poi dal New York Times, “Non sappiamo cosa sarà tra un paio di mesi, quindi non facciamo congetture. Se si ha intenzione di soffermarsi sul worst case scenario, si può elaborare un piano di emergenza e concentrarsi sulla creazione di una routine per superare i giorni, uno alla volta”. Partendo dal presupposto che nessuno sa quanto durerà la pandemia né quanto tempo ci vorrà prima che si possa riprendere la vita che consideravamo “normale”, anche il Washington Post ha raccolto lo stesso genere di consigli da diversi psicologi: tutti concordano sulla necessità di fare attenzione al proprio benessere psicologico come a quello fisico, programmando la cura di se stessi quotidianamente e creandosi un’impalcatura di abitudini che possano reggere il contraccolpo delle notizie sempre più drammatiche, delle ordinanze sempre più restrittive.
Non si tratta, ovviamente, di un tentativo di romanticizzazione della propria quarantena forzata, né di un far finta che, in fondo, la situazione non sia poi così grave e neppure di guardarne il lato positivo: come sottolinea la fotografia comparsa sui social, una quarantena tutto sommato “quieta” è un privilegio di classe e la condizione che viviamo rende ancora più evidenti le disparità sociali. Vivere chiusi in un grande appartamento dotato di balconata panoramica o di giardino è assai più semplice che farlo in quattro persone in un bilocale in cui il sole non arriva neppure a mezzogiorno; avere sicurezze economiche rende assai più tollerabile l’ansia generale per il futuro; poter evitare di uscire è una condizione fortunata, mentre ci sono tanti che, paura o meno, ogni mattina devono continuare a recarsi a lavoro, magari affidandosi ai trasporti pubblici e sperando nel buon senso delle altre persone. Perché una pandemia, il collasso economico, l’ansia generale e una raffica quotidiana di notizie drammatiche, non sono la condizione ideale per rilassarsi e dedicarsi ai propri hobby, neppure se ne si ha tutta la volontà.
L’idea, allora, è quella di creare una “strategia di coping” ovvero di adattamento alla situazione: un canovaccio di azioni che, attraverso la loro ripetitività, giorno dopo giorno, diano un minimo di senso e di struttura a queste giornate di reclusione necessaria, invece di affidarle alla frustrazione, al caos o alla ricerca di notizie sui social network e sui notiziari. Scriveva Murakami Haruki in Kafka sulla spiaggia che “Guardare troppo lontano è un errore. Se uno guarda lontano, non vede quello che ha davanti ai piedi, e finisce per inciampare. Ma anche concentrarsi troppo sui piccoli dettagli che si hanno sotto il naso non va bene. Se non si guarda un po’ oltre, si va a sbattere contro qualcosa. Perciò è meglio sbrigare le proprie faccende guardando davanti a sé quanto basta, e seguendo l’ordine stabilito passo dopo passo. Questo, in tutte le cose, è il punto fondamentale”. L’obiettivo è, dunque, ridurre la frustrazione circa ciò che in questo momento non possiamo fare, sia la sensazione di indecisione sull’immediato futuro. Le giornate in casa possono essere lunghe, che si sia in compagnia o meno. Capire ed esercitare la possibilità di organizzare in autonomia una parte del nostro quotidiano, ci aiuta allora a rinforzare anche la capacità di reagire allo stress e ai conflitti.
Per costruire e rispettare una routine indoor prima di tutto, bisogna ricordare che avere una routine significa principalmente due cose: sapere cosa fare e in quale ordine. Si comincia con una lista che comprende tutto ciò che si ha bisogno di fare ogni giorno, sia dal punto di vista domestico che personale e professionale. Non è importante organizzare l’elenco: il foglio deve essere una sorta di raccoglitore di tutte le nostre attività quotidiane: tutto ciò che facciamo, che dobbiamo fare e, perché no, che vorremmo fare in questo momento, data la situazione e il contesto. Se sappiamo che parte del nostro tempo è dedicato all’igiene personale e poi alla pulizia dell’appartamento, che un’altra se ne va in telefonate ai vari amici e parenti, che il lavoro o lo studio ci prende 4 ore o più e che c’è un libro, un film, una serie che in circostanze normali avremmo voluto inserire nei nostri piani, ecco già una prima scrematura delle nostre attività quotidiane, tutte possibili. Anche lavarsi la faccia, i denti, togliersi il pigiama, rifare il letto, sono azioni da inserire nella lista, perché è meglio sapere che facciamo qualcosa, per quanto piccola sia, che sentirsi in balia dell’ispirazione che manca e della voglia che non abbiamo.
Il secondo passo è dare una struttura temporale alla giornata. Dirci che la sveglia sarà puntata comunque a un certo orario, che avremo mezz’ora per la colazione, che dopo ci occuperemo di una doccia e, in seguito, del riordino, sapere che alle 13 prepareremo il pranzo, che alle 16 sarà il tempo di uno spuntino, che alle 20 la cena sarà in tavola, può però risultare pesante o opprimente, ed è lì che bisogna aggiungere qualcosa che ci gratifichi: che sia una videochiamata, un aperitivo via skype, un film o un paio di episodi della serie che preferiamo, la realizzazione di una nuova ricetta, è giusto tenerne conto, così come va programmata l’attività fisica da svolgersi in casa, abbonandosi a uno dei tanti servizi che le società e le associazioni sportive stanno mettendo a disposizione con video professionali, anche ad hoc, e dirette, o facendosi aiutare da un’applicazione dedicata. Ma ci sono anche tanti video gratuiti su YouTube, e dirette instagram di personal trainer e insegnanti di yoga. È sicuramente una limitazione doversi affidare a una connessione internet, eppure non essendoci alternative è comunque meglio di niente, sapendo che sarà una situazione per quanto lunga, temporanea. Abitudini semplici come ascoltare musica, ballare, fare attività manuali o giardinaggio, meditare, cucinare, aiutano a migliorare la salute psicologica e fisica, dandoci la possibilità di sfogare parte dello stress, come dimostrato dagli studi.
La paura, mi è stato detto qualche giorno fa da una psicologo è uno spostamento nel futuro. Anche la speranza lo è e le due condizioni, alle volte, collimano. Bisogna, invece, concentrarsi sul presente. Una routine è, allora, un modo per farlo e lasciare le proprie ansie e la propria pena per un po’, ben sapendo che probabilmente le ritroveremo lì intatte dopo un paio d’ore. Avremo però più risorse per affrontarle e per dare una mano agli altri a fare lo stesso, anche con una semplice telefonata o un messaggio e, perché no, dei consigli come questi.