L’emergenza COVID-19 sta cambiando non soltanto le nostre abitudini ma anche il discorso pubblico, e a una velocità che non può non lasciare spiazzati. Nel giro di pochissimi giorni siamo passati dagli allarmismi di un giornalismo irresponsabile, al trionfo della milanesità “che non si ferma”, seguita però dai messaggi contrastanti della Regione Lombardia, e infine al decreto #IoRestoaCasa, che ci è stato presentato già completo di hashtag per non farci neanche faticare a trovarne uno.
Ancora prima che il Governo emanasse queste misure, in moltissimi avevano però già iniziato a pregare i propri contatti di non uscire. Su WhatsApp, tra una bufala e l’altra, hanno quindi iniziato a girare video di medici esasperati, con tanto di “cazziatoni”. E in breve il linguaggio, in particolare sui social, è diventato sempre più aggressivo e polarizzante: da un lato quelli che “restano a casa” e dall’altro una massa indistinta di persone senza alcun senso civico che si ostinerebbero a fare aperitivi sulla loro pelle ma soprattutto su quella degli italiani, dei più deboli. Il classico “noi” versus “loro” da manuale, insomma, che si nutre di “State a casa” in grado di appiattire ogni esercizio di analisi o ipotetica critica e che paradossalmente finisce per colpire quelle categorie che a lavoro sono costrette ad andarci, sempre in nome della salvezza – stavolta economica – del Paese.
Certamente in contesti di crisi come quello attuale, un messaggio chiaro e diretto (che le autorità ci hanno messo un po’ troppo tempo a imbastire) può contribuire a diffondere l’importanza di rispettare le regole (anche solo per la paura di essere giudicati negativamente dagli altri), ed è di sicuro questa convinzione in buona fede che spinge molte persone a condividere appelli che vanno dalla supplica all’aperta minaccia. Tuttavia un linguaggio apertamente violento e colpevolizzante si rivela, in questo momento, potenzialmente pericoloso, oltre che miope. Se l’obiettivo è divulgare, infatti, un approccio aggressivo è ritenuto tendenzialmente inutile e respingente, e per quanto l’apparentemente semplice istruzione di restare a casa non equivalga a complesse ricerche scientifiche, possiamo immaginare che anche in questo caso attaccare con violenta arroganza chiunque si ritenga non abbastanza informato, conforme, responsabile abbia più o meno lo stesso effetto di un tweet velenoso di Burioni: il rifiuto, o al massimo una reazione sprezzante e difensiva.
La costante e violenta colpevolizzazione porta con sé, inoltre, il rischio di una tanto inflazionata quanto incalzante deriva autoritaria se non (ancora) nella pratica almeno nell’immaginario collettivo. Senza entrare nel merito dell’efficacia o la necessità dei provvedimenti restrittivi imposti dal Governo, possiamo quindi dire che parole come quelle del presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, il quale in una diretta Facebook ha sostenuto che gli irresponsabili devono essere “neutralizzati e messi in condizioni di non nuocere”, risultano esasperati e superano un limite, se non concreto ma sicuramente linguistico, che non vorremmo mai vedere oltrepassato.
L’esaltazione dello stato di polizia come panacea di tutti i mali, in primis quello della mancanza di senso civico, è infatti una china pericolosa da cui dobbiamo difenderci forse tanto quanto dal virus. Ora che perfino i filtri Instagram ci permettono di segnalare orgogliosamente, con il solito mantra “io resto a casa” e magari una coroncina (o un paio di occhiali, ma le varianti sono molte), che siamo dalla parte dei giusti, la delazione inizia a farsi strada come pratica socialmente accettata: il sindaco di una piccola cittadina pugliese incoraggia a segnalare chi è tornato dal Nord, mentre in Trentino sempre più persone starebbero denunciando i vicini provenienti da altre parti d’Italia e che occupano adesso le loro seconde case.
Come abbiamo potuto verificare semplicemente scorrendo i nostri feed, questo atteggiamento non è prerogativa di una tipologia specifica di individuo ma si distribuisce in maniera abbastanza eterogenea in tutto lo spettro socio-politico.
La comunità scientifica sembra aver superato l’idea, proposta da teorici come Fromm e Adorno, dell’esistenza di una “personalità autoritaria” ben precisa ed è oggi più incline a collegare la presenza di comportamenti e linguaggi, appunto, autoritari a un insieme di fattori situazionali. Ad esempio, secondo lo psicologo sociale John Duckitt chi si identifica intensamente con il proprio gruppo sociale di riferimento è particolarmente suscettibile alla possibilità di sviluppare atteggiamenti autoritari se percepisce una minaccia contro di essa. In momenti come quello che stiamo vivendo, il rapporto tra noi e la nostra comunità è soggetto a rinegoziazioni. Ci viene richiesto un maggiore conformismo, ma proprio quest’ultimo è uno dei tre atteggiamenti che secondo Duckitt – che a sua volta riprende lo studioso Bob Altemeyer (creatore della scala per l’identificazione del “right-wing authoritarianism”) – caratterizzano l’autoritarismo come fenomeno psicologico. Se non si fa attenzione, quindi, è facile che a esso si aggiungano una sottomissione incondizionata e l’aggressività autoritaria nei confronti di chi non rispetta le regole di condotta imposte.
Regole che, in questo caso, si innestano però in una situazione altamente complessa. La persona che, in questi giorni, #restaacasa responsabilmente, fa smart working quando possibile o ha la possibilità di usufruire delle ferie, e si concede una birra davanti all’ennesima diretta Instagram è uno dei tanti personaggi di questa narrazione, da cui restano fuori migliaia di storie diverse che gli appelli in caps lock rischiano di cancellare, con la conseguenza non soltanto di portare all’annientamento simbolico (il processo per cui chi non viene rappresentato dal discorso mediatico resta escluso anche da quello socio-politico) ma anche a minacce molto concrete ai danni di identità marginalizzate. In un clima in cui le differenze vengono appiattite da un discorso pubblico omologante, a farne le spese sono infatti soprattutto le persone che non si possono rispecchiare in questo racconto collettivo: i senza fissa dimora, come il cittadino senza tetto denunciato a Milano, donne vittime di abusi da parte dei propri familiari, persone che soffrono di una salute mentale precaria e per le quali la reclusione è un potente trigger, e ultimo ma non ultimo chi deve ancora lavorare e, soffocato dall’enfasi a tratti cieca e ossessiva sui pericoli del lasciare la propria abitazione, si sente discriminato ingiustamente, come se fosse sacrificabile.
Un linguaggio autoritario tende a escludere la complessità, l’eccezione percepita, perché in realtà è spesso più regola di quanto sembri, e la vulnerabilità; tutte componenti importanti del momento storico che stiamo vivendo, in cui la polarizzazione degli estremi – le esigenze di ordine sanitario e quelle di ordine economico – impedisce di valutarne attentamente le evidenti intersezioni nella pratica di risposta all’emergenza. Anche se in tempi come questi sembrano apparirci come concetti opposti, senso civico e senso critico sono in realtà due facce della stessa medaglia. Riflettere sulla complessità della situazione che stiamo vivendo ci permette di concentrarci sulle questioni davvero pressanti: ha senso gridare contro chi sta facendo una passeggiata, rispettando tutte le norme di sicurezza, invece che richiedere l’intervento dello Stato per fermare condizioni di lavoro che quelle stesse norme non le garantiscono, mettendo quindi in pericolo un numero elevato di persone (e con esse la tenuta stessa del sistema sanitario)? Senza necessariamente creare ulteriori polarizzazioni o cedere a benaltrismi altrettanto nocivi – d’altronde la preoccupazione per il mancato rispetto delle norme che colpiscono il cittadino comune nella sua quotidiana gestione della vita privata è più che legittima – sicuramente reagire all’emergenza significa anche accanirsi contro dei capri espiatori.
Quel “dovete stare a casa” così martellante e minaccioso è un messaggio generalizzato, certo, ma proprio in quanto tale può risultare aggressivo, non soltanto nei toni ma anche nella sostanza. Se è vero che possiamo uscirne insieme, solo come comunità, dobbiamo cercare di rendere il nostro linguaggio più accogliente e inclusivo, e restare vigili innanzitutto verso noi stessi. Il passo dall’aggressività social a quella faccia a faccia è molto più breve di quanto sembri.