Il governo cerca di salvare il Natale. È questa la frase che ritorna tra i titoli di giornale e le analisi dei tuttologi, come se la priorità del Paese fosse il cenone della Vigilia e non l’alleggerimento degli ospedali. Gli stessi membri dell’esecutivo lanciano messaggi in tal senso, spiegando come sia fondamentale appiattire la curva epidemiologica per passare un Natale più tranquillo e raccogliere nel minor tempo possibile i risultati dei sacrifici di tutto il Paese. C’è l’auspicio di poter stare almeno tra i parenti – e via al toto ospiti: fino al primo o al secondo grado? – i fuorisede sperano di poter tornare a casa, qualcuno parla di aperture a fisarmonica, di due settimane in famiglia e poi lockdown per raffreddare il contagio. Eppure tutte queste sono false illusioni, la politica sembra far leva sulle speranze di una popolazione sempre più affaticata, quando invece dovrebbe far passare chiaramente il messaggio che qui il problema non sono le feste comandate, ma le persone che ogni giorno muoiono, e non solo di Covid.
Sembra un déjà-vu, perché tutto questo l’abbiamo già vissuto durante il primo lockdown, in prossimità della Pasqua. Furono due i politici che martellarono per l’apertura: Matteo Renzi e Matteo Salvini. Il leader di Italia Viva chiese l’apertura delle fabbriche prima di Pasqua e non nominò la festività a caso, considerando che lo fece attraverso un’intervista su Avvenire, quotidiano cattolico. Il leghista si spinse ancora più in là, chiedendo per Pasqua l’apertura delle chiese. Eravamo in piena emergenza, le scuole erano chiuse e gli ospedali pieni, e Salvini pronunciò il suo personale sermone in un’intervista su Skytg24: “Ci avviciniamo alla Santa Pasqua e occorre anche la protezione del Cuore Immacolato di Maria. Non vedo l’ora che la scienza e anche il buon Dio, perché la scienza da sola non basta, sconfiggano questo mostro per tornare a uscire. La Santa Pasqua, la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, per milioni di italiani può essere un momento di speranza da vivere”.
Adesso si torna alla carica, con Salvini che auspica di “non avere da Conte un Dpcm di Natale” perché, spiega, “come tanti italiani voglio passare il Natale con i figli e con i miei genitori che non vedo da due mesi”. Forse dimentica che c’è una pandemia in corso e che il più importante regalo sotto l’albero per i suoi genitori sarebbe proprio quello di stare a distanza, visto che, come è ormai assodato, sono proprio gli anziani i soggetti più vulnerabili in caso di contagio. L’idea collettiva di creare un alleggerimento per un certo periodo di tempo, come se il virus fosse più clemente durante le festività, non ha ovviamente nessuna evidenza scientifica e se gli italiani adottassero questi comportamenti, riunendosi, ci sarebbe con ogni probabilità un contraccolpo nel numero dei contagi. In questi giorni la curva sta lievemente rallentando – non calando, ma è già qualcosa – e si spera che a dicembre inizi la discesa, sia per i contagi che per i carichi ospedalieri. Allentare le misure proprio durante una fase di ripresa sarebbe controproducente, soprattutto durante il periodo dell’influenza stagionale e del freddo. Come usano dire i virologi, “sta arrivando la cavalleria dei vaccini”, quindi cerchiamo di ragionare con il cervello e non con la pancia.
Il microbiologo Andrea Crisanti ha smorzato gli entusiasmi dei politici: “Piuttosto che riaprire per Natale, penso che la situazione sia così malmessa da dover consigliare l’opposto: approfittare delle ferie di fine anno per chiudere tutto in quelle due settimane e cercare di fermare il contagio”. In effetti sembra la proposta più lucida, perché molti italiani in quel periodo non lavoreranno, i mezzi di trasporto saranno meno pieni e sarebbe la finestra temporale ideale per far respirare gli ospedali. La politica deve mediare tra scienza ed economia, trovare il giusto compromesso per non esasperare i cittadini e al contempo preservare la loro salute, di certo la soluzione non risiede nelle letterine dei bambini usate a scopi mediatici.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha pubblicato su Facebook la lettera di Tommaso Z., un bambino di 5 anni, intitolata “Autocertificazione speciale per Babbo Natale”: la richiesta al premier di un pass particolare per poter consentire a Babbo Natale di portare doni a tutti i bambini del mondo, condita con frasi del tipo: “So che Babbo Natale è anziano ed è pericoloso andare nelle case, ma lui è bravo e metterà sicuramente la mascherina per proteggersi”, “Le prometto che, oltre al lattino caldo e ai biscotti, metterò sotto l’albero anche l’igienizzante”. Effettivamente sembrava una lettera falsa, costruita ad hoc, e il fatto che per provare la veridicità dell’operazione sia dovuto intervenire Rocco Casalino, portavoce del premier, postando sui social un video del piccolo Tommaso ospite da Barbara D’Urso, rende l’idea del livello politico italiano degli ultimi anni.
La risposta del presidente del Consiglio è una pappardella retorica in cui viene confermata la presenza di Babbo Natale per tutti i bambini, ovviamente munito di mascherina e gel igienizzante, con la speranza che possa mandare via anche il coronavirus. Probabilmente chi si occupa della comunicazione di Angela Merkel avrebbe optato per il pragmatismo, spiegando che Babbo Natale non esiste e che i genitori dei bambini compreranno probabilmente i regali online perché è meglio non uscire, ma è noto che i tedeschi non sono gli italiani. I salti mortali che Conte è costretto a fare per accontentare un po’ tutte le categorie, dai bambini ai commercianti, dai lavoratori ai cattolici, risultano stucchevoli. Per disincentivare gli assembramenti ha pure dichiarato: “Il Natale è un momento di raccoglimento spirituale, farlo con tante persone non viene bene”.
Si ragiona insomma su un rallentamento per le festività, annullando per alcune zone il divieto di spostamento tra comuni e permettendo ai parenti di riunirsi per il cenone, per un massimo di sei persone a tavola. Sono soltanto voci giornalistiche, ma stonano con il periodo che stiamo vivendo, che non consente allentamenti o eccezioni. Le ultime parole di Conte sembrano andare in questa direzione, con più rigidità, ma un paio di settimane fa esclamava: “Se a Novembre rispettiamo le regole, il Natale sarà più sereno”. Questo vuol dire confondere i cittadini, in un momento storico in cui servirebbe chiarezza.
Dietro le festività c’è anche la questione dello shopping e dunque dell’economia. Un Natale in lockdown, oltre a sembrare il titolo di un cinepanettone, comporterebbe la perdita di introiti e un pesante danno per parecchi esercizi commerciali, questo è fuor di dubbio. Allacciarsi a un conforto tanto effimero, distoglie la mente dalla gravità della situazione che stiamo attraversando. Basterebbe spiegare chiaramente alle persone la necessità di passare un Natale più sobrio e un Capodanno in solitaria: un piccolo sacrificio dalle conseguenze estremamente utili per la comunità. Carlo Palermo, segretario nazionale del sindacato dei medici ospedalieri, ha spiegato che un’apertura natalizia ci farebbe rischiare una terza ondata e che dunque a quel punto servirebbe una zona rossa diffusa. Anche perché la pandemia non sarà risolta a breve, giusto per consentire abbuffate di zampone e lenticchie, ma si protrarrà per larga parte del 2021. Per una volta sarebbe il caso di pensare al futuro e non alle esigenze immediate per dare il contentino alla popolazione durante le ferie e poi doverla curare nelle settimane successive.
Per milioni di famiglie sarà triste passare le feste a distanza, a prescindere dalla visione laica o religiosa del Natale. Rientra però tra i sacrifici necessari, anche per evitare gli errori del passato, quando in estate tra bonus vacanze e discoteche aperte si è scelto di concedere una boccata d’aria agli italiani, mettendo in secondo piano il contenimento del virus. Nel frattempo bisognava fare tutto il possibile per rafforzare le strutture ospedaliere, ma non è stato fatto. Adesso il copione sembra ripetersi: stiamo pensando agli allentamenti senza concentrarci sulla prevenzione, sui comportamenti da attuare per evitare nuove ondate e farci trovare, per l’ennesima volta, impreparati.