A ottobre, Manaus dichiarava l'immunità di gregge. Oggi è al collasso per le varianti del virus. - THE VISION
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Negli ultimi dodici mesi la comunità scientifica si è spesso interrogata sull’effettiva durata dell’immunizzazione acquisita sia dopo essersi ammalati di Covid sia dopo l’inoculazione del vaccino. Gli ultimi studi dimostrano che la possibilità di reinfettarsi, seppur rara, esiste, e il più delle volte dipende da mutazioni del virus, le cosiddette varianti. È del tutto normale che un virus muti: a ogni nuova infezione, infatti, l’Rna del virus può modificarsi lievemente durante la sua replicazione nelle cellule ospiti. Molte di queste mutazioni non hanno alcun effetto, se non quello di aiutare gli scienziati a capire come il virus si stia diffondendo nel mondo, ma occasionalmente può verificarsi una mutazione più significativa che può alterare la gravità della malattia che provoca, o la velocità di diffusione del virus o, ancora, la risposta immunitaria dell’ospite.    

È probabilmente il caso della variante brasiliana che, come dimostra uno studio pubblicato il 6 febbraio scorso su The Lancet, ha provocato una nuova impennata dei casi nel Paese sudamericano. Il Brasile è il secondo Stato più colpito al mondo dalla pandemia dopo gli Stati Uniti, con oltre 239mila morti, anche a causa del fatto che, proprio come negli Stati Uniti della precedente amministrazione Trump, non sono mai state messe in atto delle misure rigide a livello nazionale per la prevenzione dei contagi. Le politiche adottate dal presidente Jair Bolsonaro hanno danneggiato le misure anti contagio adottate dai governi locali e diffuso disinformazione e negazionismo. Da gennaio a oggi, soprattutto nella zona della città Manaus, capitale dello Stato di Amazonas già duramente colpito nel corso della prima ondata, i ripetuti avvisi della comunità scientifica che dallo scorso novembre consigliava di adottare misure di restrizione per rallentare i contagi non hanno impedito un vertiginoso aumento dei casi di reinfezione.

Jair Bolsonaro

Il primo caso di Covid-19 nell’area di Manaus, la più vasta area urbanizzata dell’Amazzonia, si è verificato nel marzo del 2020. Il picco è stato poi registrato a maggio, quando il dilagare dell’epidemia ha causato il collasso degli ospedali e dell’economia della zona. I contagiati sono stati talmente tanti che, in uno studio pubblicato su Science, i ricercatori hanno stimato che il 76% dei due milioni di residenti di Manaus sarebbe entrato in contatto con il Coronavirus entro il mese di ottobre, una percentuale che va oltre quella che alcuni ricercatori hanno considerato sufficiente per il raggiungimento della cosiddetta immunità di gregge. Secondo Ester Sabino, immunologa dell’Università di San Paolo del Brasile, il numero di persone entrate in contatto con il virus durante la prima ondata dell’epidemia è stato molto alto, e questo significa che le persone ancora suscettibili all’attacco del virus dovrebbero essere troppo poche per permettere nuove ondate massicce dell’epidemia. Manaus dovrebbe quindi essere una regione Covid-free o quasi. Invece per alcuni mesi il virus ha rallentato la sua corsa, ma poi l’epidemia è esplosa di nuovo, facendo ripiombare la regione in una situazione di emergenza: nei cimiteri, che hanno già raggiunto la capienza massima durante la prima ondata, si fa ormai uso di fosse comuni per mancanza di spazio, negli ospedali stanno nuovamente finendo i posti letto e le bombole di ossigeno, e la media delle morti è aumentata di circa il 22%. Un’ulteriore conferma del fatto che non è eticamente accettabile raggiungere l’immunità di gregge facendo infettare più persone possibile, come più volte ribadito anche dall’Oms.  

Cimitero a Manaus, Brasile, maggio 2020

Secondo i ricercatori che hanno preso parte alla ricerca pubblicata da The Lancet, ci sono diversi motivi dietro questo nuovo aggravarsi dell’epidemia a Manaus: prima di tutto il numero di persone entrate in contatto con il virus durante la prima ondata potrebbe essere stato sovrastimato, e la soglia dell’immunità di gregge sarebbe rimasta molto più bassa fino al mese di dicembre. Le persone dotate di anticorpi, quindi, non sarebbero che il 52% del totale, anche se questa percentuale avrebbe comunque dovuto garantire un buon livello di immunità, tale da evitare il diffondersi di una nuova ondata epidemica di queste proporzioni. 

Inoltre, l’immunità potrebbe aver iniziato a ridursi già all’inizio di dicembre, a causa di un decremento della produzione di anticorpi contro il virus dopo la prima esposizione. Uno studio condotto nel Regno Unito su più di seimila operatori sanitari ha mostrato che gli anticorpi che proteggono dal SARS-CoV-2 durano almeno sei mesi dopo il primo contatto con il virus. Le reinfezioni nella zona di Manaus si sono verificate circa sette mesi dopo la prima ondata, ma questo motivo, preso singolarmente, non sembra sufficiente a spiegare una circolazione così capillare del virus. 

Il motivo più accreditato sembra quindi essere quello di una variante del virus in grado di aggirare il sistema immunitario, favorendo le reinfezioni e quindi una ripresa dei contagi. Marcus Venecia Lacerda, specialista di malattie infettive a Manaus, ha dichiarato alla National Public Radio statunitense che “le persone che sono state solo lievemente esposte al virus in passato si stanno infettando ora”. 

Questa variante, definita dai ricercatori variante P1, è stata riconosciuta per la prima volta proprio a Manaus all’inizio del gennaio 2021, in una donna di ventinove anni senza patologie pregresse o malattie croniche, che si è ammalata di Covid-19 prima a marzo e poi di nuovo a dicembre. La variante P1 presenta varie mutazioni, una delle quali simile a quella riscontrata anche nella variante sudafricana. Secondo un report dello European Centre for disease prevention and control (Ecdc) al momento non ci sono ancora forti evidenze microbiologiche o epidemiologiche su eventuali cambiamenti nella trasmissibilità di questa variante, ma la presenza di questa mutazione potrebbe indicare che un aumento della trasmissibilità sia plausibile, e in questo caso un’immunizzazione parziale non sarebbe più una protezione adeguata.  

Le reinfezioni sono spesso difficili da documentare perché per individuarle non sono sufficienti il monitoraggio dei sintomi del paziente e il tampone molecolare, ma va sequenziato il genoma del virus. Solo con questo procedimento gli scienziati sono in grado di identificare in che modo il virus Sars-Cov-2 cambia nel tempo, di capire se questi cambiamenti hanno delle conseguenze sulle caratteristiche del virus e di usare queste informazioni per prevedere ulteriori impatti sulla salute pubblica. È l’obiettivo del team di Michael Worobey, biologo evoluzionista dell’Università dell’Arizona, che ha messo a punto un test precoce per identificare rapidamente nuove varianti potenzialmente pericolose. “Sappiamo già da studi di laboratorio quali mutazioni a livello degli amminoacidi potrebbero essere più preoccupanti”, ha detto alla Bbc, “quindi possiamo utilizzare questi dati per cercare di fermare in tempo la diffusione di nuove varianti.” 

Proprio il sequenziamento genomico di campioni di Rna virale estratti da alcuni pazienti di Manaus alla fine di dicembre ha rivelato che il 42% dei campioni apparteneva a una forma di SARS-CoV-2 ancora ignota, identificata poi come la variante P1, percentuale che secondo l’immunologa Ester Sabino è in aumento in modo costante. La nuova variante sembra la stessa che alcuni viaggiatori giapponesi hanno portato a Tokyo all’inizio di gennaio proprio dal Brasile. 

Quello che sta succedendo a Manaus è un segnale che non va sottovalutato, sia da quelle Nazioni che ritengono che il raggiungimento dell’immunità di gregge attraverso l’infezione di più persone possibile risolverà l’emergenza, sia da quei Paesi dove questo risultato è affidato alla somministrazione massiva del vaccino. Essere immuni non significa poter abbandonare subito tutte le misure di sicurezza finora utilizzate. Dobbiamo fare i conti con il fatto che almeno per diversi mesi il virus continuerà a mutare e che distanziamento e procedure e dispositivi sanitari saranno ancora i metodi più efficaci per contenere la sua diffusione.

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