Il 28 febbraio, la Nuova Zelanda ha registrato il primo caso di COVID-19 del Paese, 10 giorni dopo il primo caso di trasmissione secondaria in Italia, a Codogno. Due mesi dopo, la Nuova Zelanda conta 1469 contagi e 19 decessi, su poco meno di 5 milioni di abitanti: lo 0,03% del totale (l’Italia ha ora lo 0,3%). Il contenimento del virus nel Paese, favorito anche dalla posizione geografica e dalla bassa densità di popolazione (15,2 abitanti per chilometro quadrato), è stato però reso possibile anche grazie alla strategia di leadership di Jacinda Ardern, prima ministra e leader dei Labour in carica dal 2017, che ha combinato rigore scientifico, senso di comunità, empatia e trasparenza nei confronti dei cittadini.
La Nuova Zelanda si è preparata alla SARS-COV-2 prima ancora che arrivasse nel proprio territorio, elaborando una strategia con 4 livelli di allerta: prepare, reduce, restrict e lockdown. La prima fase di preparazione prevedeva controlli ai confini, test a tappeto, tracciamento e isolamento domiciliare dei casi positivi, mentre tutte le attività procedevano normalmente. Il 23 marzo, dopo aver superato i 30 casi attivi, si è passati alla seconda fase, che incoraggiava le forme di lavoro a distanza e permetteva ancora gli assembramenti fino a 500 persone, a condizione che si mantenessero le distanze di sicurezza. La terza fase, di pari passo con la crescita dei contagi, è iniziata il 27 aprile e prevede il distanziamento sociale (ma con possibilità di andare al lavoro, a scuola, fare sport o attività ricreative e di ricongiungersi con i propri familiari), distanza di due metri tra le persone, possibilità di mantenere aperti negozi e attività che rispettino le misure di sicurezza. Anche matrimoni, funerali e tangihanga (i riti funebri māori) sono concessi fino a 10 partecipanti. I medici devono lavorare, se possibile, a distanza. Se l’andamento dei contagi non aumenterà ulteriormente nelle prossime settimane non sarà nemmeno necessario attivare l’ultima fase, quella del lockdown totale.
Per spiegare le restrizioni ai neozelandesi, Ardern ha più volte utilizzato il concetto di bolla, cioè la cerchia di persone con cui si può interagire quotidianamente, che va dai familiari stretti (o whānau, la famiglia allargata Māori) ai care giver, come baby sitter e collaboratori domestici. In base alla fase in cui ci si trova, ha spiegato la premier, si può allargare o restringere la propria bolla. Quello che colpisce di queste misure, al di là della loro efficacia – il Washington Post ha scritto che la Nuova Zelanda non sta solo abbassando la curva dei contagi: la sta schiacciando – è la particolare attenzione ai bisogni dei cittadini, unita alla comunicazione empatica di Ardern. Le misure prevedono la possibilità di riunire le famiglie e gli affetti divisi (cosa che è molto difficile da fare nel nostro Paese), di organizzare le attività di cura, di fare attività all’aria aperta e persino di andare al mare. Ardern non ha dimenticato di includere nelle proprie linee particolari attenzioni per la popolazione māori che, secondo alcuni studi, avrebbe il doppio di probabilità di morire per la COVID-19 rispetto ai pākehā, i neozelandesi di origine europea. Il governo, tramite il ministero Whānau Ora che si occupa dello sviluppo delle comunità indigene, ha infatti stanziato un piano da 56 milioni di dollari di aiuti a queste popolazioni.
Le varie misure sono state illustrate ai cittadini con grande trasparenza e realismo: durante le conferenze stampa, Ardern (che è laureata in comunicazione) non ha mai minimizzato la situazione né usato toni catastrofisti e ha sempre dedicato molto tempo a rispondere alle domande dei giornalisti. Il 25 marzo ha organizzato una diretta Facebook da casa sua per rispondere a quelle dei cittadini, con un tono serio ma allo stesso tempo informale. Il risultato di questa strategia di comunicazione è che l’88% dei neozelandesi dichiara di avere elevata o moderata fiducia nel governo nella gestione dell’emergenza.
Secondo Suze Wilson, docente di Management della Massey University in Nuova Zelanda, Ardern è riuscita a combinare tre fattori di leadership nella gestione della crisi che hanno reso la sua strategia così efficace: ha indicato la direzione da intraprendere, ha fornito delle motivazioni e ha mostrato empatia. Tutti i Paesi del mondo che hanno sperimentato il lockdown spesso si sono “accontentati” di motivazioni non commisurate allo sforzo richiesto ai cittadini. Nel Regno Unito, Johnson ha addirittura detto ai propri connazionali di prepararsi a vedere i propri cari morire. Nel nostro Paese, il distanziamento sociale inizialmente giustificato dal ridurre la famigerata curva dei contagi si è trasformato in un stillicidio di decreti che hanno reso le misure sempre più restrittive e sempre più impopolari. Non solo si fa fatica a vedere una data di fine, ma ora che cominciano a emergere le contraddizioni di questa situazione, sono in molti a interrogarsi sull’utilità dello stare a casa in mancanza di un concreto monitoraggio dello stato di salute dei cittadini.
Nelle schede informative del governo neozelandese, invece, estremamente chiare e di facile consultazione, non c’è spazio per interpretazioni o vuoti normativi. L’ingresso di ogni fase di allerta è stato accompagnato da lunghe conferenze stampa in cui Ardern ha fatto numerosi esempi concreti di cosa significhi allargare o restringere la propria bolla, oppure ha spiegato come sarebbero cambiate le comuni attività quotidiane, come fare la spesa o portare i figli a scuola. Non sono mancate anche scelte di grande impatto sull’opinione pubblica: la premier e i suoi ministri hanno ridotto il proprio stipendio del 20% per i prossimi sei mesi. Come ha detto a The Atlantic Helen Clark, prima ministra della Nuova Zelanda dal 1999 al 2008, anche se i neozelandesi possono essere in disaccordo con le scelte del governo, sanno che Jacinda Ardern sta agendo per il loro bene: “C’è un grande livello di fiducia e affidamento nei suoi confronti per l’empatia che dimostra”. Un senso di fiducia testimoniato anche dalle parole del leader dell’opposizione Simon Bridges, che il giorno in cui è stato dichiarato lo stato di emergenza in Parlamento ha affermato: “In questo caso non ci sono conservatori o laburisti, o verdi, o liberali, o nazionalisti. Soltanto neozelandesi”. Ha poi espresso il suo completo appoggio alle scelte della prima ministra e si è offerto di aiutarla “nel cercare di migliorare costantemente la risposta della nazione per il bene del nostro popolo”. Qualcosa di molto diverso da quanto successo in Italia dove, alla faccia dell’unità nazionale, l’opposizione non ha perso occasione per trovare pretesti per attaccare il governo.
L’empatia di Ardern si fonda invece sul concetto di comunità, emerso con forza anche all’indomani dell’attacco terroristico di Christchurch, quando la premier ha parlato delle responsabilità comuni di una “famiglia” di fronte al dilagare dell’odio. Tenendosi in costante contatto con i suoi concittadini, ha spesso parlato delle conseguenze della pandemia anche sulla sua vita privata, senza mai commettere l’errore di strumentalizzare i propri cari. In questo modo è riuscita a stabilire una vicinanza alle persone che, unita alla trasparenza sulle scelte del governo e sull’evoluzione dei contagi, ha impresso un profondo senso di comunità ai neozelandesi, una nazione che negli ultimi anni ha affrontato molte divisioni politiche. Come scrive Suze Wilson, Jacinda Ardern si è rivelata sia una leader politica decisa sia una “complice” dei cittadini, preparandoli e accompagnandoli nei grandi sconvolgimenti psicologici e sociali della pandemia. E il tutto senza mai dimenticare le fasce della popolazione più a rischio, come gli anziani e le minoranze indigene.
Viene da chiedersi in che proporzioni abbiano influito la posizione geografica favorevole e il governo illuminato di Jacinda Ardern nel contenimento dell’epidemia in Nuova Zelanda. La dipendenza economica del Paese dalla Cina, a inizio febbraio, faceva temere un’esplosione incontrollata del virus, che non si è verificata. Ma, di fronte al negazionismo di Bolsonaro, al cinismo di Johnson, all’ostruzionismo di Trump e alle solite dinamiche schizofreniche della politica italiana campionessa mondiale di scaricabarile, il governo di Jacinda Ardern appare come un miracolo di buona politica in uno dei momenti più difficili che la storia si sia mai trovata ad affrontare.