A oggi, quasi un terzo dei vaccini contro il Covid-19 è stato usato negli Stati Uniti, con circa 106 milioni di dosi su un totale delle quasi 355 milioni somministrate dal 13 dicembre al 13 marzo scorsi, stando ai dati accorpati della piattaforma Our World in Data. In un altro grande Paese come il Brasile sono state invece somministrate poco più di 11 milioni di dosi tra i circa 213 milioni di brasiliani, mentre in regioni come l’Amazzonia il Covid-19 sta dilagando.
Dove si procede a ritmo spedito nelle vaccinazioni, come nel Regno Unito, in Israele e prima ancora in Cina, si spengono i focolai di infezione permettendo di riaprire attività, servizi e luoghi di cultura e divertimento. Dal Brasile, invece, si sta propagando una delle varianti più pericolose del virus, in grado, secondo quanto emerge dai casi rilevati, di infettare anche chi ha già avuto il Covid-19 o è stato vaccinato. Si sospetta per esempio che in una rsa della provincia di Arezzo, dove è presente la variante brasiliana oltre a quella inglese, dieci anziani vaccinati da più di un mese con entrambe le dosi di Pfizer-BioNTech, siano risultati di nuovo positivi al Covid-19 proprio a causa di una o di entrambe le varianti subentrate. Asintomatici, al momento, ma capaci di trasmettere il virus agli altri.
Di questo passo lasciarsi alle spalle la pandemia è sempre più difficoltoso. Vaccinare a rilento e in modo squilibrato tra i diversi Paesi stimola i virus a eludere le barriere degli anticorpi che si sono create tre le popolazioni, sviluppando varianti che con la globalizzazione possono arrivare rapidamente ovunque: “Un problema serio”, per l’immunologo della Casa Bianca Anthony Fauci, tra i massimi esperti mondiali di malattie infettive. Scienziati ed esperti sanitari di orientamenti e interessi anche opposti concordano sul pericolo che, come calcola uno studio della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health pubblicato su British Medical Journal a dicembre, quasi due miliardi di persone rischiano di non avere accesso al vaccino contro il Covid-19 fino al 2022. Anche Edward Bergmark, fondatore del ramo Optum del colosso statunitense delle assicurazioni sulla salute UnitedHealth Group, sollecita i governi a prendere atto che “l’era dei nazionalismi è finita”, facendo presente come “lasciare il virus diffondersi in Paesi privi dei mezzi per acquistare vaccini può permettere l’emergere di più varianti, contro le quali i vaccini in uso possono dimostrarsi meno o per niente efficaci”. Quanto accaduto in Brasile, anche per i ritardi e le inefficienze nel piano di vaccinazione favorite dal continuo negazionismo sul Covid-19 del presidente Jair Bolsonaro e di parte del suo governo, può ripetersi in forma ancora più grave in una miriade di Paesi che, anche volendo, hanno possibilità ben inferiori del Brasile per vaccinare i suoi cittadini in massa: a febbraio l’Onu ha denunciato come il 75% delle dosi prodotte per la pandemia fosse appannaggio di soli 10 Stati, mentre in altri 130 non se ne stava somministrando neanche una. Il segretario generale António Guterres non ha fatto nomi, ma è scontato che tra questi ci siano gran parte degli Stati africani e del Medio Oriente, devastati da guerre recenti come la Siria, l’Afghanistan e lo Yemen.
Questo vale anche per Stati dove la campagna vaccinale sarebbe più facile da gestire: per esempio la Tunisia, tra i Paesi emergenti del Maghreb nonostante le sacche di povertà interne e legata all’Europa con intensi scambi anche commerciali, può fare affidamento sulle poche migliaia di dosi del vaccino russo Sputnik e sulla rete Covax istituita a settembre dall’Onu per redistribuire in modo equo i vaccini nel mondo. Sulla carta al momento, perché le case produttrici autorizzate come Pfizer-BioNTech e AstraZeneca riservano a Covax le loro quote residuali di produzione, che avanzano cioè dalle forniture destinate ai governi capaci di stringere accordi bilaterali più vantaggiosi. La stessa Unione europea si scontra in queste settimane con i flussi maggiori e più puntuali dei vaccini diretti verso gli Stati Uniti e il Regno Unito, nonostante i contratti miliardari siglati da Bruxelles con le stesse multinazionali. Si è molto speculato sull’accordo del premier israeliano Benjamin Netanyahu con il patron della Pfizer e amico Albert Bourla per accaparrarsi entro la primavera più delle dosi necessarie per coprire tutti i suoi concittadini, forse anche in vista della campagna per le Legislative anticipate in Israele del prossimo 23 marzo. Dalle indiscrezioni di Politico e altre testate, il governo Netanyahu avrebbe pagato il doppio dell’Ue per vaccino pro-capite (dai 30 ai 47 dollari a persona, contro la media di 19 dollari che verserebbe per due dosi Bruxelles), riuscendo a immunizzare in poco più di due mesi i quasi nove milioni di abitanti. Il tutto mentre in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza oltre cinque milioni di palestinesi restavano in balia del Covid-19, nonostante per le leggi internazionali Israele se ne debba occupare in quanto forza occupante.
Seguendo la stessa logica, gli Stati Uniti del nuovo presidente Joe Biden contano di raggiungere l’immunità di gregge “entro la festa d’indipendenza del 4 luglio prossimo”. Dalla scorsa estate Stati ricchi come Israele, il Regno Unito e, in Europa, la Svizzera hanno siglato accordi bilaterali sui vaccini con i colossi farmaceutici. Persino la Germania, a fine 2020, ha firmato un contratto con Pfizer-BioNTech per aggiungere unilateralmente 30 milioni di dosi al suo pacchetto di 56 milioni di dosi del piano di ripartizione della Commissione Ue. Una corsa ai vaccini egoista quanto paradossale, tenuto conto che per le caratteristiche originarie del Covid-19 (al là delle sue varianti) anche Stati piccoli come Israele o la Svizzera, in grado di vaccinare rapidamente tutta la popolazione adulta, possono raggiungere una protezione solo temporanea dal virus. Le diverse reinfezioni, già a distanza di alcuni mesi, riscontrate in persone che erano positive al Covid-19 un anno fa, inducono infatti gli scienziati a concludere che, come il Coronavirus del raffreddore, quello del Covid-19 generi anticorpi attivi per un periodo che oscilla tra i tre e i sei mesi e forse, stando a una ricerca del Karolinska Institutet e della Karolinska University Hospital di Stoccolma, in una parte dei soggetti anche una protezione più lunga attraverso la memoria del virus conservata nelle cellule T del nostro sistema immunitario. In ogni caso, il periodo di copertura è limitato, varia da persona a persona e resta da appurare con indagini ancora in corso.
Ancora più incerta è la protezione dei vaccini somministrati adesso, che dalle prime osservazioni anche l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ipotizza almeno della durata di alcuni mesi, anche se non si hanno ancora abbastanza dati per sviluppare considerazioni più solide. Si può però già prevedere che anche in Stati popolosi come l’Italia o la Francia, e non solo nei Paesi più poveri, il virus non smetterà mai di circolare se milioni di cittadini saranno vaccinati tra mesi, quando i primi vaccinati dovranno intanto ripetere le vaccinazioni. E a quel punto anche Stati come Israele, che nel 2021 hanno raggiunto l’immunità di gregge, saranno di nuovo vulnerabili al ceppo originale oltre che alle variabili, e i loro investimenti per la vaccinazione di massa saranno vanificati. In questo circolo vizioso nessuno potrà tornare davvero alla vita di prima, lasciandosi alle spalle i danni economici e sociali della pandemia. Su Lancet, nell’articolo Challenges in ensuring global access to COVID-19 vaccines, esperti di scienze politiche ed economiche della London School of Economics ricordano con epidemiologi e medici come “difficilmente la pandemia finirà senza un dispiegamento globale dei vaccini”, che non devono solo essere autorizzati, come avviene ora con le licenze in alcuni Paesi, ma anche “prodotti su larga scala, avere un prezzo accessibile, essere distribuiti globalmente in modo che siano disponibili dove ce n’è bisogno, e ampiamente diffusi tra le comunità locali”. Quattro dimensioni, si precisa, “strettamente correlate” per bloccare la trasmissione del virus; mitigarne soltanto la diffusione “con il distanziamento fisico, coprendo il viso, svolgendo test a tappeto – e potenzialmente con le terapie – manterrà probabilmente il rischio di epidemie e di stop della vita economica e sociale, fino a che vaccini efficaci non saranno somministrati a grandi porzioni della popolazione in tutto il mondo”.
Superare gli squilibri delle diseguaglianze globali almeno nelle vaccinazioni è quindi nell’interesse collettivo di tutta la comunità internazionale – sanitario, economico e sociale –, anche dei Paesi più ricchi e sviluppati che dovrebbero mostrarsi ora generosi, se non altro per utilitarismo. In uno studio sulla pandemia anche la Camera di commercio internazionale (Cci), la più grande business organization mondiale, rimprovera alle maggiori economie il sottofinanziamento della rete Covax, stimando l’economia globale diretta verso un crollo di 9mila miliardi di dollari se i governi falliranno nell’assicurare alle economie in via di sviluppo l’accesso ai vaccini contro il Covid-19.
Al momento dati sulla ripartizione delle dosi tra Paesi e sull‘acceleratore dell’Onu per Covax dimostrano che tanto va ancora fatto per mettere tutti gli abitanti del Pianeta al sicuro. Fauci esorta la comunità internazionale a “lavorare a un vaccino universale contro tutti i coronavirus” che ci protegga non solo da questa, ma anche da future pandemie: una sfida per la quale occorre da subito una visione condivisa e uno sforzo comune, non solo scientifico ma anche politico e di investimenti, capace di abbattere le barriere tra ricchi e poveri.