José Saramago, Albert Camus, Alessandro Manzoni: alcuni autori hanno posto al centro delle proprie opere più famose il tema dell’epidemia, costruendo dei capolavori e riflettendo su come si pone l’uomo di fronte alla minaccia del contagio. Nessuno di questi autori, però, pur raggiungendo risultati letterari altissimi, ha vissuto la piaga del contagio sulla propria pelle. Daniel Defoe, il padre del romanzo moderno, al contrario, aveva cinque anni quando la peste del 1665 colpì Londra, un trauma che racconterà nel Diario dell’anno della peste.
Nel Seicento la peste imperversò a più riprese sul territorio europeo. Nel 1624 colpì duramente Palermo, nel 1628 fu la volta di Lione, mentre nel 1630 ci ricordiamo del morbo lombardo raccontato da Manzoni, secondo gli storici la peste napoletana del 1656 uccise metà della popolazione cittadina. La cosiddetta Great Plague colpì l’Inghilterra dalla primavera del 1665 fino al settembre del 1666, quando un’altra tragedia – il grande incendio di Londra – distrusse metà della città. Gli abitanti del piccolo centro di Eyam, nel Derbyshire, registrati i mille morti, decisero da soli di mettersi in quarantena pur di evitare che l’intera popolazione venisse contagiata. Secondo il famoso resoconto di Samuel Pepys – importante testimonianza dell’epoca – a Londra il morbo faceva registrare anche duemila vittime a settimana. È stato accertato che, fra i londinesi, l’epidemia falcidiò più di centomila persone, ovvero più di un quinto della popolazione. La stima dei morti veniva tenuta in un registro che in seguito verrà pubblicato sotto il nome di Bill of Mortality.
Negli anni della peste la famiglia Defoe a causa del lavoro del padre, commerciante di candele, rimase e Londra e non potette trasferirsi in campagna come facevano i più abbienti. Le sorti economiche di chi rimaneva in città sono ricordate nel Diario: “È certo che la maggior parte dei poveri o famiglie che in precedenza vivevano del loro lavoro, o del commercio al dettaglio, campavano ora di elemosina; se non fossero state fornite straordinarie somme di denaro dai più caritatevoli la City non avrebbe potuto sopravvivere”. L’autore, forse colpito da quanto successe, non parlerà per anni dell’esperienza. D’altronde per buona parte della sua vita Defoe è stato lontano dalla scrittura: prima mercante, poi titolare di una fabbrica di mattoni, solo nella maturità – dopo l’ennesima bancarotta – si reinventò giornalista e saggista. Un’incarnazione che ebbe successo, e che lo portò a scrivere i due volumi delle famose avventure di Robinson Crusoe.
Raggiunta la fama, nel 1722 – lo stesso anno della pubblicazione di un altro classico, Moll Flanders – Defoe prese spunto dalla cronaca del recente focolaio di peste a Marsiglia per mettere ordine tra ricordi d’infanzia. Seguendo il metodo giornalistico incrociò alla sua esperienza una vasta documentazione, fatta da cronache dell’epoca, annuari, atti legislativi e interviste ai sopravvissuti. Come per Robinson Crusoe la forma adottata dall’autore è quella del diario fittizio: a parlarci del tempo di peste è H. F., un cittadino che, come la famiglia Defoe, non ha potuto lasciare la City. Se però Crusoe è un personaggio con una psicologia ben delineata, H. F. è solo un osservatore di cui non sappiamo nulla: si tratta semplicemente della maschera adottata dall’autore per raccontare il rapido susseguirsi degli eventi in presa diretta.
La narrazione di Defoe si costruisce su molteplici piani: da una parte c’è la volontà di restituire al lettore un resoconto giornalistico e completo, che rievoca la cronaca dell’epoca; dall’altra l’autore colora la narrazione di descrizioni espressioniste, in grado di raccontare le condizioni di estrema difficoltà in cui versava la popolazione. Il male evocato da Defoe ha il carattere della tragedia senza volto: “È difficile immaginare quali casi orribili si verificassero ogni giorno nelle famiglie. Persone in preda agli accessi della malattia e al tormento intollerabile dei bubboni perdevano la ragione, deliravano e smaniavano, rivolgevano le mani contro se stessi, si gettavano dalle finestre e si sparavano”. Una situazione di follia generalizzata che l’autore ricostruisce a partire dalle immagini della sua infanzia.
Nel racconto non mancano gli appunti, le riflessioni che mettono in luce il tentativo dell’autore di redigere un resoconto razionale. L’incipit stringato ci ricorda le prime avvisaglie del male: “Fu intorno all’inizio del settembre 1664 che, insieme ai miei vicini, appresi che la peste era tornata a flagellare l’Olanda”. Subito arriva un’annotazione sul mondo della carta stampata. Il narratore sostiene che “all’epoca non c’erano giornali che diffondessero voci e notizie sugli avvenimenti, e che le ingigantissero con la fantasia degli uomini, come in seguito vidi fare”. Tuttavia le avvisaglie del contagio vennero ignorate e “fu così che la notizia gradualmente perse il suo carattere di urgenza, la popolazione cominciò a disinteressarsene, come se non riguardasse nessuno di noi o potesse bastare la speranza che non fosse vera a neutralizzarla”.
Anche solo da queste brevi annotazioni si può intuire l’estrema attualità del testo di Defoe. Sembra di trovare ricapitolati i passaggi dell’epidemia che stiamo vivendo: l’approccio ambivalente della stampa fra il facile allarmismo e il tentativo di minimizzare e, allo scoppio dell’emergenza, l’irresponsabilità di chi vuole continuare a vivere la propria vita come se nulla fosse. Defoe racconta tutto questo con ritmo incalzante, scandendo nel tono asciutto il delinearsi della crisi cittadina. Nel racconto sono riportati i bollettini parrocchiali che tengono il conto di morti e infetti: un modo di affidarsi al documento per bilanciare gli umori e le paure del narratore.
Ma la rievocazione ha un fine preciso: raccontare l’emergenza e soppesare i comportamenti razionali e irrazionali del corpo sociale, in modo da consegnare ai posteri un resoconto dettagliato che faccia da pietra di paragone. Per questo, pur affondando le radici nel romanzesco, il Diario ha valore di testimonianza: perché mette in fila una serie di eventi, mutamenti che nella realtà sono stati concitati, e tiene traccia delle reazioni della popolazione, dalla fuga del ceto nobile e alto-borghese, al tentativo di aiutarsi reciprocamente dei più poveri. E poi ricorda le contromosse istituzionali: le norme igienico-sanitarie varate, come quella di bruciare spezie, pepe e resina per purificare l’aria, le misure di contenimento degli infetti, lo sforzo di mettere ordine in una città in preda alla psicosi. Un ritmo di vita, quello scandito dai decreti, che suona così simile ai tempi che stiamo vivendo.
Come ricorda Goffredo Fofi nella prefazione all’edizione Elliott, l’autore “scava nella storia recente della sua città e del suo passato per sollecitare la memoria di chi c’era e sollecitare la curiosità di chi non c’era, ma soprattutto per ammonire secondo una precisa visione del mondo e dell’uomo”. Una convinzione che vede l’uomo come dotato di razionalità e resilienza, capace di strutturare legami, costruire comunità e affrontare ostacoli a prima vista insormontabili. Puntando la bussola della razionalità Defoe ci guida fino alla fine dell’epidemia, quando il suo alter-ego può chiosare “ Una terribile pestilenza a Londra fu nell’anno sessantacinque, spazzò centomila anime lontano; eppure io vivo!”. D’altronde proprio l’epidemia di Londra portò il ventiquattrenne Isaac Newton a spostarsi in campagna, e lì trovare la necessaria concentrazione per scoprire, nel 1666, la forza di gravità.