In America Latina il 24 giugno si sono da poco superate le 100mila morti dichiarate per Coronavirus, ma la scarsa trasparenza di diversi governi fa pensare che possano essere molti di più. In Brasile, in Ecuador, in Perù, poi in Messico, infine in Cile e in diversi altri Paesi del Centro e del Sud America la pandemia dilaga con oltre due milioni di contagiati accertati. Sulla carta, nella maggior parte di questi Paesi sono stati imposti lockdown, ma spesso tardivi e parziali come in Brasile, e impossibili da far rispettare nelle favelas e per la povertà diffusa che costringe la maggioranza della popolazione a continuare a svolgere lavori saltuari e illegali per mantenersi. In questa catastrofe sanitaria e umanitaria fa eccezione il trend positivo di Cuba: a tre mesi dall’arrivo del COVID-19 nel continente americano, il regime castrista che si distingue per la sua sanità di eccellenza ha dimostrato una grande competenza nel tenere sotto controllo il virus tra la popolazione. Riuscendo contemporaneamente ad aiutare, con circa 800 medici spediti da l’Avana in missione per questa emergenza, una dozzina di Stati stranieri.
Sui numeri diffusi da Cuba sul COVID-19 (85 morti e poco più di 2300 casi) si può anche dubitare, considerata la censura di Stato e l’informazione di propaganda che contraddistinguono il governo. Il trend verso il contagio zero sull’isola è tuttavia inequivocabile: in netta discesa e in controtendenza con quello di vicini caraibici come Panama (547 morti e più di 28mila casi) e Repubblica dominicana (691 morti e quasi 28.700 casi), e della grande maggioranza dell’America Latina (in Messico e in Brasile oltre 1000 morti al giorno, in Perù e in Cile diverse centinaia), dove l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha individuato ora l’epicentro della pandemia. È soprattutto inattaccabile il metodo integrato scelto da Cuba, che anche la comunità scientifica internazionale riconosce utilizzi e abbia utilizzato per contrastare i focolai epidemici. Si tratta nella sostanza dello stesso messo in campo da Paesi virtuosi nell’emergenza sanitaria come la Corea del Sud, la Nuova Zelanda e, in Europa, la Germania.
A livello generale, il pilastro della sanità cubana non sono gli ospedali (circa 5 posti letto per 1000 abitante, in linea con la media Ue), ma la medicina porta a porta attraverso una rete molto diffusa di medici di base, che svolgono un monitoraggio e un’opera di prevenzione capillari. Per le epidemie è poi messo in atto un tracciamento tempestivo e mirato di tutti i positivi, sintomatici e asintomatici, e dei loro contatti, che nel caso del Coronavirus all’Avana si è iniziato a ricostruire sin dai primi tre casi confermati l’11 di marzo. Esattamente il metodo di tracciamento utilizzato in Veneto dal microbiologo Andrea Crisanti, ex professore e studioso di malattie infettive all’Imperial College di Londra, e il “testare e tracciare” chiesto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che in questa pandemia ha parlato più da fisica che da politica, ispirandosi al modello sudcoreano perfezionato durante le epidemie asiatiche della SARS e della MERS. La Germania è così lo Stato europeo che, a fronte di un numero contagi individuati molto alto (oltre 193 mila) è riuscito di più a limitare il numero di morti da COVID-19 (più di 9mila), rispetto alla Spagna (più di 28.300), alla Francia (più di 29.700) e all’Italia (più di 34.600).
Anche l’approccio di “screening attivo” di Cuba si basa sulle esperienze maturate durante epidemie virali precedenti, come quelle della febbre dengue. Le visite ai malati dei team territoriali, rafforzati per il COVID-19 con un esercito di circa 28mila studenti di medicina chiamati in servizio, sull’isola sono quotidiane e includono anche interviste ai positivi (individuati attraverso test sierologici e tamponi), per cercare di capire dove e come avvengano maggiormente i contagi e per apprendere di più sulle manifestazioni e sui decorsi della nuova malattia. Un’indagine di questo tipo in Germania è stata condotta a Gangelt tra il marzo e l’aprile scorsi dal virologo Hendrick Streeck, non appena individuato il primo focolaio tedesco di COVID-19 nel land del Nord Reno-Westfalia. Questi approfondimenti hanno fatto comprendere agli scienziati come questo virus si trasmettesse molto facilmente durante le feste di carnevale e altri assembramenti, piuttosto che sui mezzi pubblici, nei supermarket e negli altri negozi. I risultati di un’analisi così approfondita hanno permesso al governo di Berlino di allentare in anticipo alcune restrizioni del lockdown.
Risultati come quelli ottenuti sul COVID-19 anche dell’Avana non si improvvisano: è ormai evidente quanto il fattore tempo sia essenziale nell’intercettare i contagi prima che, come in Lombardia, le epidemie sfuggano di mano; e la velocità dipende dalla quantità, dalla preparazione e dalle dotazioni del personale sanitario a disposizione uno di Stato. Cuba può contare sul più alto numero al mondo di medici per numero di abitanti, circa 8.4 ogni 1000: il doppio della Germania (4.2) e dell’Italia secondo i dati della Banca mondiale aggiornati al 2018 da statistiche dell’Oms, dell’Ocse e dei singoli Stati. Si tratta anche di un primato che non tiene conto, tra l’altro, delle migliaia tra medici e infermieri mandati da Cuba all’estero, attraverso accordi di cooperazione con i governi stranieri. Nel 2020, come ha riportato il quotidiano di Stato Granma, sono stati circa 28mila: soprattutto con incarichi a lungo termine in America Latina, ma anche in Portogallo. Una minoranza ha anche partecipato a missioni a breve termine come quelle di quest’anno per arginare la pandemia in Italia, in Andorra e nei territori d’Oltremare francesi.
Lo sforzo fatto dalla rivoluzione – sfidando 60 anni di embargo statunitensi – sulla sanità e sull’istruzione pubbliche e gratuite per tutti sta permettendo oggi ai ricercatori dell’Avana anche di sviluppare contro il COVID-19, nei loro laboratori statali dei centri di biotecnologia (Biocen) e farmaceutico (MedSol), medicinali testati su basi scientifiche e distribuiti in via sperimentale tra la popolazione, come la Biomodulina T, in grado di rafforzare il sistema immunitario. “Tutto il sistema sanitario cubano è organizzato per stare a stretto contatto con la popolazione, identificare l’emergere dei problemi di salute e gestirli immediatamente”, ha commentato l’ex decano dell’American University di Washington ed esperto di America Latina William Leogrande, spiegando che in questa pandemia “nessun altro Paese dell’emisfero ha fatto qualcosa di simile”.
Nonostante i risparmi al welfare sotto la presidenza di Raul Castro (2008-2018), anche nell’ultimo decennio Cuba ha continuato a investire nella sanità circa l’11,7% del suo Pil, secondo gli ultimi dati a disposizione della Banca Mondiale nel 2017; più dell’Italia (l’8,8%, invariato nel 2019 includendo però un 2% di spesa privata nella sanità) e anche della Francia (11,3%) e della Germania (11,2%). Nel nostro Paese si sono al contrario continuati a tagliare posti letto negli ospedali (ora 3,2 ogni 1000 abitanti), calati del 30% tra il 2000 e il 2017 (dati Eurostat e Ocse) e in crollo costante dagli anni Ottanta, in particolare nelle terapie intensive e nei reparti per malati acuti che sarebbero stati una risorsa importante per gestire il COVID-19. Contemporaneamente non sono stati rafforzati i presidi territoriali: ancora tra il 2014 e il 2016 l’Istat ha registrato un calo dei medici di base dell’1,5%. Così l’Italia è arrivata impreparata alla pandemia, e anche l’aumento di 3 miliardi e mezzo di euro per la Sanità messo a bilancio alla fine del 2019 dal ministro Roberto Speranza per il 2020-2021 è arrivato troppo tardi. Al contrario, Stati come Cuba che investono da anni in un sistema sanitario pronto per le emergenze, hanno potuto anticipare l’evolversi della pandemia da Coronavirus anziché inseguirla.
Va ammesso che per uno Stato piccolo e in diversi aspetti autoritario come Cuba è più facile restringere le libertà personali e imporre coercizioni: nella fase più acuta, tra aprile e maggio, sull’isola sono stati limitati gli spostamenti dall’Avana ai centri con meno contagi e l’isolamento per i sospetti positivi e l’uso delle mascherine sono stati obbligatori, pena la reclusione di un anno. Ma senza il fiore all’occhiello della sua sanità anche la risposta di Cuba alla pandemia si sarebbe limitata a un lockdown in stile cinese. Che ha funzionato, anche in Italia, anche se il metodo del test and tracking sarebbe stato più evoluto, ancora più efficace, e meno limitante delle libertà personali di base.
A oggi, per la sua capacità di risposta sia livello nazionale che internazionale, il sistema sanitario cubano può essere considerato tra i più preparati per affrontare il COVID-19; e Cuba un regime comunista rivoluzionario in grado di garantire agli oltre 11 milioni di cubani i diritti universali inalienabili alla salute e all’istruzione. Nel 2014 la Banca mondiale ha valutato le scuole e la ricerca dell’Avana realtà di eccellenza, al livello di Stati come la Svizzera, la Finlandia e il Canada. Le Nazioni Unite hanno lodato i “risultati impressionanti” raggiunti nella sanità da Cuba, in un’America Latina dove si stima che più del 30% della popolazione non abbia accesso alle cure gratuite. Un sistema che ora pagano milioni di persone in tutto il continente americano, come dimostrano i numeri sempre più gravi della pandemia.