Le misure restrittive adottate in primavera per contenere l’emergenza epidemiologica hanno avuto notevoli ripercussioni sulla salute mentale di molte persone e si sono rivelate particolarmente difficili da affrontare per chi soffre di disturbi alimentari.
A porre l’attenzione sul tema, tra gli altri, è stato anche l’Istituto Superiore di Sanità. Quando l’Italia si apprestava a entrare nella Fase 2, lo scorso maggio, ha infatti pubblicato un approfondimento sull’impatto che la pandemia ha avuto sulle persone con disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Il testo mette in luce alcune problematiche emerse durante i mesi di lockdown: l’incremento dello stress e della rabbia, la maggiore tendenza a ribellarsi alle regole e l’inadeguatezza dell’offerta di trattamenti psicologici e psichiatrici nel corso dell’emergenza sanitaria. Queste problematiche, unite alla condizione d’isolamento e alla paura del contagio, hanno provocato un peggioramento dei sintomi caratteristici dei disturbi alimentari, in particolare per quanto riguarda l’anoressia, la bulimia e il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder). Un peggioramento evidenziato anche da uno studio pubblicato alla fine di luglio sull’International Journal of Eating Disorders e condotto su circa 1000 pazienti tra Stati Uniti e Paesi Bassi. I partecipanti di entrambi i Paesi hanno risposto a un questionario online che ha mostrato che nei primi mesi della pandemia si è verificato un aumento considerevole dell’ansia, un aggravamento dei sintomi legati ai DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) e una maggiore difficoltà nel farsi seguire e aiutare a distanza. L’obiettivo primario di questo studio era quello di analizzare l’impatto della pandemia su pazienti con disturbi alimentari e capire allo stesso tempo quali potessero essere le loro esigenze di trattamento alla luce della particolare situazione.
In questa situazione è ancora più importante aumentare la consapevolezza collettiva di queste problematiche. Durante la quarantena è stato riscontrato un peggioramento sia di quelli che sono i sintomi specifici dei disturbi dell’alimentazione, sia dei sintomi che sono spesso correlati, come ad esempio l’ansia e la depressione. La dottoressa Francesca Tamponi, Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica specializzata nel trattamento dei Disturbi Alimentari, ha raccontato a The Vision che “Nelle persone con anoressia è aumentata la restrizione alimentare, erano ancora più rigide nella selezione dei cibi; soprattutto nei pazienti più giovani ha influito la sensazione di perdita del controllo e il fatto di affrontare obbligatoriamente dei pasti in famiglia e quindi, di conseguenza, l’impossibilità di gestire autonomamente la propria alimentazione. Per chi soffre di bulimia e di disturbo da alimentazione incontrollata sono aumentati gli episodi di abbuffate e anche i metodi di compenso (come ad esempio il vomito); in questo caso hanno avuto certamente un’incidenza il cambiamento nelle modalità di fare la spesa e il fatto di avere una grande quantità di cibo a disposizione”.
Anche le limitazioni che ci sono state sullo svolgimento dell’attività fisica – che hanno portato a intensificare la restrizione del cibo oppure, in altri casi, ad allenarsi in modo eccessivo dentro casa – e l’incremento di messaggi sui social o diffusi dai media che rafforzavano la cultura della dieta e la paura di ingrassare durante la quarantena, hanno rappresentato un ulteriore problema per le persone che soffrono di Dca. Questi messaggi hanno acuito sia il senso di colpa sia la sensazione di perdita del controllo che provano molte persone.
“Un aspetto positivo che ho notato,” continua la dottoressa “è che, sia durante la quarantena sia in questi mesi di riapertura, alcuni si sono decisi a chiedere aiuto per la prima volta. Questo è molto positivo perché purtroppo i disturbi alimentari hanno un lungo periodo di malattia non trattato, che va da quando c’è l’esordio del sintomo fino a che non si chiede aiuto: in questo periodo si aggravano i sintomi e c’è il rischio che il disturbo si cronicizzi”.
I colloqui con i terapeuti e con le diverse figure professionali che si occupano di disturbi dell’alimentazione si sono svolti a distanza – quando possibile – per oltre tre mesi, una condizione che ha spesso reso necessario un adattamento da parte dei terapisti e dei pazienti. Per Cecilia Dieci, biologa nutrizionista, è stato importante mantenere i contatti per evitare che le persone si sentissero abbandonate in una situazione che ha messo a dura prova la tenuta psicologica di molti ed evitare regressioni e il ritorno ad abitudini dannose. “Personalmente non ho notato in questi mesi un effettivo peggioramento nelle persone con DCA che seguivo già,” ci ha raccontato, “posso dire però che alcune persone hanno iniziato a manifestare i primi disturbi del comportamento alimentare proprio nel corso della pandemia”.
Secondo le stime ufficiali i DCA in Italia riguardano circa 3 milioni di persone, di cui 2,3 milioni sono adolescenti (soprattutto di sesso femminile). Nonostante si tratti di un problema diffuso, viene spesso sottovalutato sia da chi ne soffre, sia dai familiari. “È utile informare i genitori innanzitutto su quelli che possono essere i primi campanelli d’allarme,” ha proseguito Dieci, “per fare in modo che non minimizzino il problema. Il messaggio che per me è importante trasmettere è che si può chiedere aiuto e che dai DCA se ne può uscire facendo un percorso adeguato; soprattutto perché oggi rispetto ad esempio a vent’anni fa sono stati fatti dei passi avanti”.
La tendenza a sottovalutare questo disturbo è legata a più fattori. In primo luogo è importante considerare che, sebbene chiunque possa diventarne vittima, la fascia d’età più colpita è quella dell’adolescenza, un periodo molto delicato di passaggio in cui una persona inizia a costruire la propria identità. È una fase in cui avvengono anche tanti cambiamenti nel proprio fisico e in cui si comincia a percepire diversamente il proprio corpo. Questi cambiamenti rendono più complessa la gestione e l’elaborazione delle proprie emozioni e quindi anche la possibilità di comunicarle agli altri. Per un genitore può essere difficile comprendere l’emergere di un disturbo alimentare nel proprio figlio, perché innanzitutto bisogna accettare che c’è un problema e che è necessario farsi aiutare. A peggiorare le cose durante la pandemia di Covid-19 è stata poi l’interruzione della normale vita scolastica e il fatto che siano venute a mancare le interazioni sociali che prima potevano aiutare a non focalizzarsi su pensieri negativi o messaggi controproducenti.
Durante i mesi di isolamento le persone con disturbi dell’alimentazione si sono trovate ad affrontare anche l’emergere di molteplici emozioni negative ed esperienze potenzialmente problematiche. Una situazione che continua ancora adesso a metterci in crisi e che l’Italia si prepara ad affrontare con le misure restrittive comunicate nell’ultimo DPCM, che resterà in vigore fino al prossimo 24 novembre. La speranza è che queste bastino per evitare un nuovo lockdown generalizzato, che tuttavia non si può escludere se l’emergenza epidemiologica dovesse peggiorare. Ad ogni modo, per quello che riguarda i DCA è importante fare tesoro dell’esperienza degli scorsi mesi. È necessario accettare che sia in corso un’emergenza psichiatrica connessa a quella epidemiologica e che questa, allo stesso modo, non andrebbe ignorata. I decreti governativi emanati per contenere la diffusione del SARS-CoV-2 hanno alimentato la paura e il senso di abbandono, che sono spesso all’origine dei disturbi alimentari. In questi mesi c’è stato un peggioramento dei sintomi dovuto allo stress per la situazione, al repentino e obbligato cambiamento di abitudini, ma soprattutto al fatto che non tutti hanno potuto ricevere l’adeguato supporto – telefonico od online – dai terapeuti. La pandemia, in questo senso, rappresenta un’ulteriore sfida per lo Stato e per chi segue professionalmente questo genere di disturbi, così come per i pazienti e le loro le famiglie.