Tentare di capire la Storia mentre la si vive è difficile, se non addirittura fuorviante. Nel presente siamo troppo concentrati sulle nostre emozioni, convinzioni ed esigenze personali. Rischiamo di perdere il senso complessivo dei fenomeni che viviamo, e soprattutto il loro impatto sul lungo periodo. Dall’altra parte, soltanto provando a interpretare il nostro tempo, consapevoli del passato e con lo sguardo al domani, possiamo dare una prospettiva alle azioni di oggi. Solo se ci impegniamo a cercare di dare un senso a quello che stiamo vivendo, pur mantenendo l’umiltà e la consapevolezza della nostra fallibilità, possiamo prendere decisioni in prospettiva. Ecco perché oggi dobbiamo sforzarci di dare un senso a quello che viviamo e a quello che abbiamo vissuto negli ultimi due decenni, al manifestarsi delle falle della globalizzazione: la crisi finanziaria dei mutui subprime del 2007-2008; le disuguaglianze crescenti dovute a quella che Thomas Frieden ha definito la “camicia di forza dorata”, ovvero l’insieme di regole economiche necessarie per partecipare all’economia globale, tra cui l’abbassamento delle tasse per le grandi aziende e minori diritti per i lavoratori; il terrorismo islamico e delle estreme destre nazionaliste, che trovano il proprio capro espiatorio da una parte nell’occidentalismo implicito nella globalizzazione, e dall’altra paradossalmente nella perdita di identità collettive delle società occidentali; e non da ultimo le pandemie globali come quella attuale di COVID-19.
È ancora presto per stabilire il reale impatto del coronavirus, ma è certo che avrà – così come ha già avuto nei vari Paesi che ha toccato – un’enorme forza distruttiva dal punto di vista economico e sociale. E questa forza è stata amplificata dalla globalizzazione. Per esempio la delocalizzazione della produzione di un bene significa che l’interrompersi del lavoro in un solo Stato può comportare lo stop delle vendite in altri Paesi, come già avvenuto nel caso di Apple. I mercati finanziari sono consapevoli di questo, e infatti hanno risposto in maniera feroce, arrivando a fine febbraio alla peggior settimana della crisi del 2008. L’enorme flusso di scambi di persone e di merci ha reso più facile il contagio, e renderà più difficile l’estinzione totale del virus poiché, finché sarà diffuso anche in un solo Paese, resterà potenzialmente un pericolo per tutto il resto del mondo dato il suo livello di contagiosità. Questa è la ragione per cui nessun Paese da solo può pensare di sconfiggere la COVID-19. Anzi, l’ottusa presunzione di quelli che pensano di potercela fare da soli potrebbe avere conseguenze disastrose sui suoi vicini e sul resto del mondo.
La globalità della minaccia che stiamo vivendo in questi giorni è stata confermata dall’Oms (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) che ha ufficialmente classificato la COVID-19 come una pandemia globale, poiché ha ormai raggiunto un livello di diffusione incontrollato dovuto alla pluralità di focolai che lo compongono, mettendo a serio rischio l’intera comunità globale. Il diretto generale dall’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha lamentato il livello di iinazione di molti governi del mondo, difficilmente spiegabile con gli ormai evidenti esempi di Cina, Corea del Sud, Italia e Iran. Ma quello che fa più rumore è il silenzio dovuto alla mancanza di una risposta collettiva e multilaterale da parte dei Paesi del mondo, in un momento in cui, come ha scritto il politologo statunitense Ian Bremmer, una risposta globale sarebbe più necessaria che mai.
Per ora i singoli Stati nazionali hanno risposto all’emergenza del virus all’insegna dell’egoismo nazionale. Lo abbiamo visto fin dai primi giorni dell’emergenza quando si sono diffusi nel nostro Paese e nel resto del mondo violenze e atti razzisti prima contro le persone di origine cinese poi contro i primi contagiati, come fossero untori e appestati, e infine contro il nostro stesso Paese da parte del resto del mondo e degli Stati vicini con pregiudizi e pessima satira.
Ma questi atteggiamenti sono soltanto un indicatore di qualcosa di molto più grave: le tardive ed egoistiche politiche adottate dai singoli Paesi – Italia compresa – che, come ha scritto il New York Times, assomigliano più a una discordante cacofonia che a un coro all’unisono, l’unico che potrebbe sperare di agire efficacemente sul virus. Il meeting del 25 febbraio, tra i vari ministri della Salute dei Paesi confinanti con l’Italia, si è risolto in un nulla di fatto. Il Consiglio dei ministri dell’Unione europea ha riunito tutti i ministri della Salute dei Paesi dell’Unione, ma nessun accordo è stato raggiunto. Per di più Francia e Germania hanno dichiarato che avrebbero bloccato l’export di mascherine e altri materiali protettivi agli altri Stati membri, in nome della solidarietà.
La mancanza di coordinamento si è vista nelle differenti misure adottate nella stessa Europa. Alcuni hanno predisposto la quarantena per l’intero Paese, ma quando i casi erano già cresciuti. La Spagna ha adottato queste misure domenica 15 marzo, quando i contagiati ammontavano già a più di 7000. E la Francia, come ha dichiarato il presidente Macron nel suo discorso al Paese del 12 marzo, ha deciso di svolgere le elezioni amministrative di domenica 15 e di chiudere poi le scuole e le università da lunedì 16 marzo, quando aveva già accertato ben 5423 casi. L’Italia ha deciso di prendere questa decisione quando aveva poco più di 3000 casi. I Paesi dell’Est Europa, come la Polonia, hanno deciso di reagire chiudendo le frontiere agli altri stati. Caso eccezionale (quanto rischioso) è il Regno unito. Il primo ministro Johnson sembra aver adottato la strategia di far contagiare il numero più alto di persone per raggiungere una sorta di immunità di gregge senza per forza dover ricorrere al totale lockdown del Paese. Quest’idea, su cui il governo britannico ha fatto retromarcia anche in seguito alle critiche di molti specialisti, non solo rischia di causare danni irreparabili allo stesso Stato, ma anche di mantenere un enorme focolaio nel continente europeo, mentre altri Paesi hanno preso misure più drastiche, ma auspicabilmente più efficaci, che però stanno pagando e continueranno a pagare a caro prezzo, con strascichi non indifferenti sull’equilibrio sociopolitico ed economico dei prossimi anni.
Uno dei comportamenti peggiori è stato forse quello degli Stati Uniti. In un Paese in cui il prezzo delle cure mediche che i privati cittadini devono sostenere rischia di mandare sul lastrico milioni di persone, il presidente Donald Trump ha deciso di sospendere i voli da tutta l’Europa, tranne che dal Regno Unito. Una mossa doppiamente inutile, come ha dimostrato il caso di chiusura dei voli diretti tra Cina e Italia: sia perché è estremamente facile da aggirare (basta partire da qualsiasi aeroporto del territorio britannico) sia perché un articolo accademico apparso su Science ha mostrato che le restrizioni di viaggio non fanno altro che ritardare il progresso della malattia di soli 3-5 giorni. La scelta di Trump è stata duramente attaccata dai vertici dell’Unione, Ursula Von Der Leyen e Charles Michel, che hanno criticato la mancanza di consultazione con i suoi alleati più important. Nei giorni successivi la misura è stata estesa al Regno unito e Trump ha poi dichiarato l’emergenza nazionale il 13 marzo, garantendo i fondi del governo federale, senza però imporre misure concrete sul territorio nazionale.
Ma non sono solo gli Stati a mostrare incapacità di coordinazione e di responsabilità. Durante la conferenza stampa di giovedì 12 marzo la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha risposto a una domanda dei giornalisti affermando: “Non siamo qui per chiudere lo spread”. Le improvvide parole della Lagarde hanno causato un aumento vertiginoso dello spread italiano, portoghese, spagnolo e irlandese, affossando ancora di più le borse: il Ftse Mib di Milano ha chiuso al -16,92%, la peggior giornata della sua storia, Parigi ha chiuso al -11% e Londra al -9%.
In questo contesto, si distingue positivamente l’azione della Commissione europea, che è riuscita a sbloccare l’export di mascherine da Francia e Germania, che inizialmente avevano cercato di imporre restrizioni alla loro circolazione negli altri Paesi europei. Ha inoltre deciso di allogare 25 miliardi dei fondi Ue per combattere il virus e le sue conseguenze economiche. Ma queste misure serviranno a poco se la Commissione non riuscirà nel suo obiettivo: “Formulare raccomandazioni su una linea d’azione comune ed evitare che gli Stati membri adottino misure non coordinate o addirittura contraddittorie”, come riportato nel sito della Commissione stessa. Invece sta avvenendo proprio questo, con una grande maggioranza di Stati che continua a tenere tutto aperto quando avrebbe già dovuto garantire la quarantena da tempo, con conseguenze probabilmente disastrose sui propri vicini europei.
Il problema è che tutto ciò dimostra che si pensa di poter risolvere un problema globale agendo negli ormai inadatti confini degli stati nazionali, ma è come volere contenere l’oceano in un bicchiere. Come ha scritto il filosofo e sociologo francese Edgar Morin, la globalizzazione ha portato l’umanità a vivere in una “comunità di destino” in cui i problemi di uno sono anche i problemi dell’altro: il futuro di tutti i Paesi della Terra è ormai indissolubilmente legato. Perché diventi coscienza collettiva la comunità di destino ha bisogno di un pericolo comune e di un’identità comune. Se il primo non manca, come dimostra l’emergenza della COVID-19, ciò di cui si ha bisogno ora è la seconda: un’identità terreste, un senso di appartenenza a una comune Terra-Patria. Questo è l’unico modo per far fronte alle conseguenze negative della globalizzazione, tra cui le pandemie. È una questione di territorializzazione delle politiche da mettere in atto: se la sfida è mondiale, anche la risposta deve essere mondiale.
Se è vero che nei momenti difficili si forma l’identità, se è vero che davanti alle difficoltà viene fuori il coraggio delle persone, la situazione causata dalla COVID-19 potrebbe essere un passo significativo verso la consapevolezza di essere una sola comunità di destino. Si potrebbe partire da azioni semplici: cercare standard comuni per i test diagnostici, in modo da migliorare i dati nelle mani della comunità scientifica, oppure dare vita a una task-force in seno all’Onu che faciliti lo scambio di informazioni e la creazione di protocolli specifici grazie a un tavolo permanente tra i ministri della Salute dei vari Paesi. Se ciò può obiettivamente risultare ostico a livello globale dovrebbe essere più facilmente realizzabile almeno a livello di macro-zone, soprattutto in seno all’Unione europea. I Paesi europei hanno latitato, pensando, come abbiamo fatto noi prima di loro, che il problema non li riguardasse, o potessero affrontarlo in autonomia. Ormai è chiaro che non è così.