In Corea stanno fermando l’epidemia eliminando la privacy. In futuro faremo lo stesso?

Apparentemente il presidente sudcoreano Moon Jae-in sembrerebbe aver commesso diversi errori nel gestire l’emergenza COVID-19, simili peraltro a quelli in cui sono incorsi molti altri capi di Stato. Eppure, al momento, la Corea del Sud sembra essere il primo Paese ad aver preso provvedimenti vincenti per affrontare il virus senza ricorrere al lockdown. Come Conte, Macron e Trump, anche Moon Jae-in aveva annunciato che l’epidemia sarebbe stata contenuta facilmente, tanto da non bloccare nemmeno i voli dalla Cina e da non prendere particolari provvedimenti restrittivi rispetto all’esplosione di un focolaio tra i 211mila membri della setta cristiana della Chiesa di Gesù di Shincheonji,  che è arrivata a registrare il 60% di tutti gli infetti del Paese. In breve tempo la penisola è diventata così uno degli Stati al mondo più colpiti dal virus. Nonostante ciò, fino a domenica 15 marzo la Corea del Sud ha registrato 8627 casi di contagio da coronavirus, ma solo 75 morti. L’Italia, alla stessa data, contava 20.603 pazienti infetti e 1809 deceduti. Com’è possibile una discrepanza del genere?

In un lasso di tempo limitato, il presidente sudcoreano ha messo in campo una strategia di contenimento in deroga a ogni legge sulla privacy, partendo proprio dalla città che ospitava il quartier generale della setta, Daegu, per poi aggiustare il tiro, nonostante le critiche dell’opposizione, e dare inizio alla seconda fase della guerra al virus. Per l’Asia Times il piano ha visto un investimento di 13 miliardi di euro in fondi di emergenza, misure di quarantena più severe, i concerti e gli incontri sportivi rimandati, scuole e università chiuse per tre settimane, e riti religiosi online. Altro dato che colpisce è l’elevato numero di test diagnostici effettuati, 20mila al giorno in cliniche “drive-thru”, riuscendo così a effettuarne almeno 190mila dal 20 gennaio all’11 marzo, con una media di tempo di recupero dei campioni da analizzare in seguito in laboratorio di 15 minuti. Per fare un paragone, negli Stati Uniti nello stesso periodo ne sono stati fatti appena 1500, mentre in Italia 73mila. Il problema del numero di tamponi eseguiti in Italia, infatti, oltre ai costi dei tamponi stessi è legato all’organizzazione delle strutture e al numero di personale specializzato che se ne può occupare. Per queste ragioni ogni giorno i laboratori italiani riescono a processare un numero di molto inferiore a quello sudcoreano. Anche se l’azienda farmaceutica italiana Diasorin ha annunciato che per fine marzo dovrebbe riuscire a rilasciare sul mercato un tampone capace di fornire il responso in solo sei ore.

Moon Jae-in, presidente della Corea del Sud

Il piano si basa anche su tempi rapidi e costi contenuti per il tampone – l’equivalente di 120 euro, coperti per metà dalle assicurazioni – 500 cliniche in tutto il Paese dove effettuarlo, 40 delle quali con un contatto minimo tra pazienti e operatori sanitari. Inoltre, per i pazienti positivi il test è gratuito. La ricetta sudcoreana è un sistema molto efficiente e molto lontano dal blocco messo in atto prima da Cina in alcuni dei suoi governatorati e successivamente da Italia e a seguire da molti altri Stati europei (che però essendo territori molto più ridotti ed essendosi ormai diffuso capillarmente il contagio – anche a causa di comportamenti spensierati e precauzioni vaghe e parziali – si vedono ora costretti a dover bloccare l’intero sistema, con tutte le drammatiche ripercussioni sull’economia che questo comporta e comporterà). Il governo di Moon Jae-in ha avuto un approccio più liberale, evitando persino di chiudere la città focolaio dell’infezione, Daegu e procedendo invece con un implemento del sistema sanitario (che già prevedeva un alto numero di posti letto in terapia intensiva rispetto al numero degli abitanti) e con una procedura di tamponi a tappeto, che ha peraltro portato a dati molto più oggettivi attendibili rispetto alla letalità della malattia. In alternativa alla creazione di zone rosse, ha puntato su un modello di test diffusi, partecipazione pubblica e informazione chiara e capillare, organizzando un “Grande fratello” invasivo ma accettato da gran parte della popolazione, proprio perché legato alla tutela della salute. D’altronde la Corea era preparata all’eventualità di una nuova epidemia, dato che già nel 2015, dopo la MERS (Middle East Respiratory Syndrome) ha creato un database in cui aggregare tutte le informazioni private dei cittadini, da rendere pubbliche a discrezione del governo. Nessuna democrazia occidentale avrebbe acconsentito a una legge simile, senza per giunta essersi direttamente confrontata con un’epidemia come quella di MERS (molto più letale della COVID-19) e ora, anche volendo, sarebbe impossibile mettere in piedi un sistema tanto complesso e delicato.

Grazie a una rubrica che nel dettaglio è arrivata perfino al singolo individuo, le autorità governative sudcoreane hanno cominciato a mandare sms di emergenza, presentati “messaggi di orientamento sulla sicurezza”, oltrepassando ogni limite di tutela della privacy. I messaggi, infatti, includono rivelazioni sensibili sulla vita privata delle persone infette. E mentre per le autorità sanitarie e gli uffici distrettuali di tutto il Paese si tratta di un promemoria mirato sulle le pratiche di lavarsi accuratamente le mani, di non toccarsi il viso e di evitare i contatti, per l’opinione pubblica si tratta di una vera e propria schedatura. L’individuo contagiato è anche sottoposto a tracciamento: utilizzando dati Gps, riprese delle telecamere di sorveglianza e le transazioni con carta di credito, il governo coreano è riuscito a ricreare i loro percorsi già dal giorno prima della manifestazione dei primi sintomi. Gli sms permettono di sapere anche il genere e la fascia di età del contagiato, oltre a dettagli personali, foto, identità dei familiari e perfino, nei segni particolari, se si è adulteri. Questa strategia ha sollevato non poche perplessità tra la popolazione, mentre lo stigma sociale rischia di superare la paura dell’epidemia stessa. Quanto a risultati, però, il monitoraggio a 360 gradi ha consentito di informare le persone potenzialmente a rischio, spingendole a sottoporsi ai test e a stare in quarantena.

Secondo l’Oms, fare più test può portare a un abbassamento del tasso di letalità perché circa l’80% dei casi di COVID-19 si manifesta in una forma poco aggressiva. Come in Italia anche in Corea, i contagiati con e senza sintomi sono stati obbligati a una quarantena in casa propria, seguiti da un medico a distanza, mentre solo per i casi gravi si è proceduto al ricovero, grazie anche all’esperienza di triage sviluppata dai Pronto soccorsi già nel 2015, con l’epidemia di MERS.

Tutti questi fattori hanno contribuito a tenere basso il tasso di letalità, che in Corea del Sud è dello 0,9% contro una media globale di circa il 3,4%. Fino a qui sono state per lo più donne di età inferiore di 40 anni, cioè quella parte della popolazione che sta anche rispondendo meglio all’epidemia – e che se non controllata contribuisce per prima alla sua diffusione. La Corea del Sud ha un’età media di circa 42 anni, di cinque anni inferiore a quella italiana, dove però stando ai dati – molto parziali rispetto a quelli coreani – il coronavirus ha colpito soprattutto i maschi.

Altre differenze tra il caso coreano e quello italiano sono i protocolli governativi attivi 24 ore su 24 e il contingentamento dei dispositivi di protezione. L’export delle protezioni per le vie respiratorie, di cui c’è un’alta domanda in tutto il Paese asiatico, è adesso consentito fino al limite del 10% del totale, con i produttori che sono obbligati a destinare più dell’80% delle mascherine alle agenzie governative, che si occupano direttamente della distribuzione sul territorio. Per questo la Francia ha messo in atto due settimane fa una decisione ancora più drastica requisendo tutti gli stock di mascherine presenti nel Paese per organizzare la distribuzione da parte del governo.  Anche così la Corea ha rilevato giovedì 12 marzo “solo” 110 nuovi casi di contagio (114 mercoledì), aggiornando da quando ha dichiarato lo stato di emergenza sanitario lo scorso 23 febbraio e portando i casi di coronavirus al totale di 7.979.

La Cina ha invece annunciato un bollettino sul coronavirus relativo alla giornata del 13 marzo con nuovi minimi assoluti: appena 4 nuovi casi registrati e 13 decessi, che portano il totale del Paese a 3.241. Proprio l’epicentro globale dell’epidemia sta guidando il numero delle guarigioni complessive, arrivate a 64.111, pari a quasi l’80% degli 80.813 contagi finora accertati dalle autorità cinesi. Secondo il rapporto messo a punto dall’Oms, la Cina ha attuato “una fortissima sorveglianza proattiva” volta a identificare eventuali casi sospetti: tamponi a tappeto, isolamenti immediati e imposizione della quarantena ai contatti più stretti dei contagiati. Per riuscire a tracciare i possibili contatti avuti dalle persone infette, secondo quanto riportato da Science Mag, sono state impiegate 1.800 squadre di almeno cinque persone ciascuna, incaricate di tracciare e analizzare migliaia di spostamenti. Tradotto: la popolazione cinese è stata schedata e monitorata giorno e notte.

A differenza di quanto sta accadendo in Italia, oltre all’adozione di misure restrittive e alla rapida costruzione di aree ospedaliere, le autorità cinesi hanno fatto anche una ampio ricorso alla tecnologia di sorveglianza, sviluppata anche grazie alla repressione sistematica in vaste aree del Paese. In particolare è stata usata in modo massiccio l’app per smartphone Health Code, che raccoglie le informazioni fornite da ogni singolo utente e le incrocia con i big data relativi all’epidemia. Un meccanismo che, senza troppe sorprese, ha suscitato forti timori per le violazioni della privacy e il controllo da parte delle autorità: come ha svelato il New York Times, l’app sembra condividere questo genere di dati anche con la polizia cinese. Eppure queste violazioni sulla libertà del singolo cittadino sembrano però aver avuto un effetto positivo sulla lotta all’epidemia.


Il partito comunista alla guida della Cina nelle fasi iniziali dell’epidemia ha spesso imposto la censura sulle cifre ufficiali e ha aspettato a lungo prima di riconoscere l’emergenza, aggravando la situazione fino a rendere necessarie le drastiche misure sanitarie degli ultimi due mesi. L’assetto totalitario cinese, con gli enormi poteri e gli ampi margini decisionali di Pechino per imporre strategie di contenimento, ha limitato ulteriormente la libertà della popolazione. Molti osservatori sostengono anche per questo che un approccio simile non possa replicarsi in tutti quei Paesi con governi democraticamente eletti, come l’Italia e il resto d’Europa. Dove comunque sono stati presi provvedimenti che limitano massivamente i diritti del singolo cittadino nell’ottica etica di salvaguardare la salute delle frange della popolazione più a rischio.

L’Occidente si sta trovando davanti a grandi interrogativi etici e a dover prendere una decisione rispetto alle misure da adottare per far fronte alla pandemia. L’Italia, così come molti altri Stati che la stanno via via seguendo, ha optato per il lockdown. Eppure è un lockdown tardivo e non certo severo come quello cinese, fattori che potrebbero farlo risultare molto meno efficace. Il Regno Unito aveva invece abbracciato un punto di vista ancora diverso, molto discusso e altrettanto criticato, basato su una sorta di immunità di gregge “spontanea” e su un lockdown parziale, anche se il governo sembra aver fatto marcia indietro invitando la popolazione a rimanere a casa. Il piano di Johnson faceva riferimento alle ultime proiezioni del governo secondo le quali ci vorrà almeno un anno affinché il virus si estingua. Se si rivelassero veritiere non si potrebbe certo pensare di prolungare un eventuale lockdown tanto a lungo. Purtroppo è una corsa contro il tempo, che sta trovando impreparati molti Paesi, nonostante si parli del pericolo di una pandemia nata dal cosiddetto spillover (il salto di specie dei virus) da molti anni. Le misure prese oggi, influenzeranno profondamente gli anni a venire, dal punto di vista politico, sociale ed economico. Se la Corea dovesse superare l’emergenza senza lockdown anche i nostri governi si attrezzeranno per riconsiderare il concetto stesso di privacy in caso di emergenza? Il popolo lo accetterà per il “bene comune”, così come sta accettando la reclusione? Questi sono solo alcuni degli interrogativi fondamentali a cui di mette di fronte il dilagare del virus. E purtroppo, al momento, sono destinati a restare aperti.

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