Se a causa della pandemia di coronavirus stiamo tutti vivendo un’inedita situazione di difficoltà, ci sono settori della società che soffrono più di altri. Un quadro delicato è quello delle nostre carceri, che in questi giorni vedono rivolte su tutto il territorio nazionale. Sono ventisette gli istituti penitenziari che nella prima settimana di quarantena hanno registrato disagi e momenti di grande tensione. Lo status quo del nostro sistema carcerario, già precario in situazioni di relativa normalità, rischia di collassare in questa fase di stress. Tra celle stipate oltre il consentito e condizioni di vita tutt’altro che salutari, i penitenziari italiani sembrano non rispettare uno degli assunti base della detenzione: trattare chi sta scontando una pena con una dignità pari a qualsiasi altro cittadino.
Il primo carcere in rivolta è stato, il 7 marzo, quello di Salerno, dove un centinaio di detenuti, alla notizia della sospensione dei colloqui per motivi igienico-sanitari, è salito sul tetto dell’istituto per protestare. Proteste che nelle ore successive si sono diffuse a macchia d’olio: a Palermo, nelle carceri Ucciardone e Pagliarelli, i detenuti hanno raggiunto i tetti e dato fuoco a cuscini e lenzuola; scene simili si sono viste a Torino, con i detenuti asserragliati all’interno delle Vallette e la polizia schierata all’esterno; non è andata meglio nel penitenziario di Bologna, messo a soqquadro dai rivoltosi e dagli incendi. A Pavia a rischiare sono stati due agenti, presi in ostaggio durante la rivolta.
Sono state particolarmente iconiche le proteste delle carceri di San Vittore e di Foggia: i detenuti milanesi, per diverse ore asserragliati sul tetto, hanno sventolato uno striscione che chiedeva l’indulto; a Foggia 77 detenuti sono riusciti a evadere, allontanandosi in macchina o a piedi. Gli evasi sono stati catturati nelle ore successive alla fuga e solo alcuni risultano ancora ricercati. Nel penitenziario di Rieti tre detenuti sono morti di overdose durante gli scontri e altri sette sono finiti in ospedale. È andata peggio a Modena, dove i detenuti morti sono nove, anch’essi – secondo le prime ricostruzioni – per overdose dei farmaci di cui sono entrati in possesso durante i disordini. A questi si aggiunge un detenuto deceduto a Bologna per arresto cardiaco. Per vedere confermate le cause dei decessi è necessario aspettare il responso delle autopsie.
Per ovviare al problema della sospensione dei colloqui il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha concesso ai detenuti di usare Skype e la posta elettronica, almeno fino alla fine dell’emergenza sanitaria. Ma a far scattare le proteste sono state anche altre criticità, come la mancata salvaguardia dei detenuti – e del corpo di polizia penitenziario – da un possibile contagio. Sono già diversi i contagiati nel sistema carcerario: quattro detenuti, in Lombardia tra Pavia e Milano, due medici penitenziari a Brescia, altri detenuti a Modena e Lecce. Si tratta di una situazione potenzialmente esplosiva, perché è chiaro che nelle carceri si vive a stretto contatto e il rischio di diffusione del contagio è più alto.
L’epidemia va a colpire un nervo scoperto del sistema carcerario italiano: il sovraffollamento. Secondo i dati del ministero della Giustizia la capienza regolamentare dei penitenziari italiani è di poco superiore ai 50mila posti, ma attualmente i detenuti sono circa 61mila, con un esubero di ben 10mila persone che vengono stipate in ambienti dalla capienza limitata.
Guardando gli stessi dati del Ministero si nota che quasi nessuna regione italiana ha una capienza adeguata a ospitare regolarmente l’intera popolazione carceraria. Anzi, alcune regioni – tra quelle che hanno osservato le rivolte più violente nei giorni scorsi – registrano esuberi nell’ordine delle migliaia: 1000 detenuti in più in Emilia Romagna, 1300 in Puglia, 1400 nel Lazio, e quasi 3mila in Lombardia. Una situazione di disagio più acuta proprio nei primi istituti a rivoltarsi: a San Vittore l’esubero interessa 300 detenuti, come 300 – ovvero il doppio della capienza – a Foggia, più di 100 per i detenuti di Rieti, quasi 400 a Bologna e 200 a Modena.
Guardando alla composizione della popolazione carceraria italiana si nota che quasi 21mila detenuti, circa il 31%, sono dentro per reati connessi alla detenzione di sostanze illecite. Una stima che – nonostante la legge Fini-Giovanardi, che aveva portato questo dato oltre 40%, sia stata dichiarata incostituzionale – continua a essere quasi il doppio della media europea e ci fornisce il quadro di una legislazione ancora basata su proibizionismo. Allo stesso modo il 33% dei detenuti è straniero, situazione in larga parte causata da una gestione dei flussi migratori negli ultimi 18 anni regolata prima dalla legge Bossi-Fini e poi dal decreto Salvini. Normative che hanno dimezzato la durata dei permessi di soggiorno e reso più stringenti le regole per il rinnovo, aumentando il numero degli irregolari.
Con numeri del genere è difficile pensare che possano essere rispettate le distanze di sicurezza prescritte per il contenimento dell’epidemia in corso, come il metro di distanza raccomandato ai cittadini. Ancor più perché le carenze igienico-sanitarie nei penitenziari sono causate da fattori strutturali. Secondo un report dell’associazione Antigone, basato su dati del 2018, su 85 istituti presi in esame meno di 60 garantiscono nelle celle tre metri quadri di vivibilità a testa. Allo stesso modo solo 61 hanno tutte le celle con il riscaldamento funzionante, e solo il 50% possono garantire l’acqua calda; ancora meno – circa 35 – sono attrezzati con la doccia in cella. La stessa mobilità dei detenuti è ridotta: solo 52 garantiscono l’accesso alla palestra una volta a settimana, e 63 tengono aperte le celle per almeno 8 ore al giorno nelle sezioni a basso rischio.
Il report mette anche in luce come l’assistenza sanitaria in carcere sia carente. I medici sono disponibili nei penitenziari per una media di 67 ore a settimana, ma ci sono situazioni di ulteriore difficoltà, come Perugia e Prato con circa 13 ore a settimana, Rimini e Spoleto con 9-10 ore, e una misera ora a Napoli Poggiorale. Non solo i detenuti sono costretti a vivere in spazi angusti e carenti dal punto di vista igienico, ma è probabile che all’insorgere di una qualsiasi problematica di salute rischino di non ricevere l’assistenza adeguata.
Queste statistiche sono lo specchio di condizioni di vita sconfortanti, soprattutto in una situazione in cui il sovraffollamento e le carenze igieniche costituiscono dei facilitatori alla diffusione del virus. Non stupiscono allora le proteste degli ultimi giorni, tanto che l’allarme è stato lanciato anche da chi sta dall’altra parte delle sbarre. Antonio Fellone, segretario del Sinappe – il sindacato nazionale autonomo della polizia penitenziaria -, ha dichiarato: “Dateci le mascherine , le stiamo esaurendo, siamo disposti anche a pagarle. Siamo sottoposti a una doppia pressione: da un lato l’impegno raddoppia perché c’è da prevenire ogni rivolta, dall’altra dobbiamo proteggere noi, le nostre famiglie e i detenuti stessi dai contagi”. Detenuti e poliziotti sembrano accomunati dalla stessa condizione, rinchiusi in ambienti poco sicuri.
Per mitigare nel breve periodo le ripercussioni del sovraffollamento, il decreto “Cura Italia” prevede la detenzione domiciliare per le pene inferiori a 18 mesi – esclusi i casi particolari come reati in famiglia o di stalking. Nonostante le prevedibili polemiche di Lega e Fratelli d’Italia, si tratta di un primo passo, ma non basterà, perché al di là dell’emergenza i problemi del contesto carcerario sono una situazione cronica che riguarda migliaia di persone. Condizioni di vita simili non sono all’altezza di un Paese civile: non rispettano la dignità dei detenuti e di certo non spingono verso una funzione riabilitativa della pena. Allo stesso modo mettono a rischio la salute del corpo di polizia penitenziaria e di tutto il personale al lavoro ogni giorno negli istituti. Il contagio potrebbe esplodere proprio nelle prigioni, trovare terreno fertile per propagarsi, espandersi al di là del loro perimetro e quindi allungare ancora i tempi dell’epidemia. Tutti gli italiani, e non solo, sono stati chiamati a uno sforzo comune, ma è necessario che tutti i settori della società siamo messi nella condizione di poterlo sostenere, ed è normale che alla parità di doveri corrisponda la certezza di godere di una sostanziale parità di diritti.