Si è iniziato a parlare nei giorni passati di potenziali decessi e di alcuni possibili casi di trombosi collegabili ai vaccini AstraZeneca, fino al recentissimo ritiro del lotto incriminato e alla sospensione da parte dell’Aifa (l’Agenzia italiana del Farmaco) della somministrazione del siero della multinazionale in Italia, misura adottata anche in Francia e Germania. Assecondando un tipo di comunicazione che ormai imperversa anche nei mass media riconosciuti come più “autorevoli”, si è deciso di diffondere il panico ancora prima di verificare un’effettiva relazione tra i vaccini somministrati e i decessi, visto che non sono ancora disponibili i risultati delle autopsie che dimostrino un nesso e il ritiro del lotto è stato deciso a scopo meramente precauzionale.
Intanto l’Ema (Agenzia europea per i medicinali) e l’Aifa hanno comunque chiarito che non è stata riscontrata alcuna correlazione tra i casi di trombosi e la somministrazione dei vaccini, mentre per quanto riguarda i decessi sono state avviate delle inchieste che in due casi hanno escluso la relazione. Per altri tre casi le indagini sono ancora in corso. È chiaro però che riportare la notizia di queste morti in prima pagina in maniera del tutto acritica porti a un calo della fiducia verso la sicurezza dei vaccini anche tra i loro sostenitori più convinti. Senza essere accusati di difendere l’industria farmaceutica – che, va comunque ricordato, è tenuta a rispettare procedure molto rigide nel processo produttivo ed è sottoposta a controlli molto rigidi –, è necessario chiedersi quale sia l’interesse nel suscitare livelli tale di allarme senza nessuna prova scientifica a sostenerli. Quali sono i vantaggi di fomentare lo scetticismo e la paura su uno strumento fondamentale come il vaccino per combattere il Covid e un grande numero di altre malattie virali, ringalluzzendo l’ossessione dei no vax e dei negazionisti?
È vero che i vaccini hanno degli effetti collaterali, proprio come quelli riportati nel bugiardino di ogni farmaco che assumiamo con tranquillità tutti i giorni, eppure a nessuno è mai venuto in mente di scrivere un articolo dal tono apocalittico sull’ibuprofene. Ne emerge un dato di fatto incontrastabile: in una situazione difficile come quella che stiamo attraversando, si tende sempre più a diffondere panico mediatico e a spingere alla nevrosi collettiva. La cosa era evidente già un anno fa, fin dalle parole scelte nei primi giorni per descrivere la situazione pandemica, tutte ricollegabili al lessico guerresco: guerra, invasione, resistenza, combattimento, coprifuoco, trincea, dittatura, nemico, eroi da sacrificare, armi.
In poco tempo è diventato un’abitudine il bollettino quotidiano dei morti e l’identificazione del nemico, che però non è stato solo il virus, ma di volta in volta i suoi gregari e supposti diffusori, identificati con i runner, la famigerata movida, gli adolescenti, la scuola. Il ricorso a un linguaggio di tipo bellico adottato dai media, frutto della scelta di raggiungere più visibilità battendo sul tasto della paura e sconcerto, ha raggiunto il suo scopo di radicalizzare la nostra percezione, dando all’ignoto, il virus in questo caso, le sembianze del nemico contro cui lottare.
Scegliere certe parole rispetto ad altre significa quindi decidere di orientare in un certo modo il pensiero e, nel caso specifico, darci la percezione di una situazione ineluttabile in cui è accettabile ogni sacrificio: perdere il lavoro, rinunciare agli affetti e alla vita sociale, astenerci dal contatto fisico, isolarci, cambiare la nostra scala di valori, privarci della libertà diventa tutto un prezzo giusto da pagare. Ecco perché le parole sono importanti e bisognerebbe usarle con responsabilità quando si pronunciano o si scrivono; soprattutto, dovremmo iniziare a ricondurre il nostro vocabolario fuori dal clima di guerra permanente. Forse senza il linguaggio militaresco non sarebbe iniziata la caccia agli untori, si sarebbe evitato il clima di isteria collettivo e non saremmo così provati anche a livello psicologico.
Il 21 febbraio ricorreva l’anniversario della scoperta del paziente 1 a Codogno e un anno dopo abbiamo lo strumento per evitare di dover trascorrere un altro anno come quello appena terminato. Eppure il vaccino sta diventando grazie al tam tam di gran parte dei mass media italiani un nuovo nemico da cui guardarsi, quasi più pericoloso nella percezione del virus che combatte. Tolta la speranza, non resta che la disperazione. E così dal morire di fame o morire di Covid, al morire di vaccino o morire di Covid, il passaggio logico è stato più rapido del previsto. L’angoscia è riuscita a diventare lo stato d’animo dominante in gran parte degli appuntamenti che dovrebbero limitarsi al compito di informare, basandosi sui fatti, e non sulla volontà di attirare l’attenzione di un pubblico sempre più stanco. Dove c’è repressione, di istinti, di bisogni, di slanci, c’è frustrazione e dove c’è frustrazione si insidia il rischio più grande della psicosi.
Il terrorismo mediatico e le scelte di linguaggio hanno un’enorme responsabilità nella diffidenza che sempre più cittadini ostenteranno nei confronti della campagna vaccinale, con conseguenze che si tradurranno in altri morti e danni sempre più gravi per l’economia e la tenuta stessa del Paese. Per questo è più che mai necessario rinnovare la nostra attenzione alle parole scelte per descrivere il nostro presente e soprattutto il nostro orizzonte, esigendo ancora più attenzione da chi è chiamato al compito di informarci. Informarci con rigore e con dati certi, non aizzando il panico di cittadini sempre più stanchi, della pandemia e degli strilli di gran parte dei giornalisti.