Sono passati tre anni da quel famoso autunno in cui Asia Argento, Harvey Weinstein e le molestie sessuali nel mondo del cinema americano sembravano il centro di un dibattito che non si sarebbe mai esaurito e, sebbene siano cambiate diverse cose da allora e il movimento MeToo si sia diffuso su larga scala, in effetti è stato così. Da donna, e quindi da soggetto chiamato in causa, ho provato sentimenti contrastanti per un fenomeno che, a mio avviso, parte da presupposti giusti e necessari: eliminare la prassi dei ricatti sessuali nel lavoro e in generale tutti gli abusi di potere, la condivisione e quindi lo stimolo per riconoscere i soprusi subiti e per trovare il coraggio di denunciare molestie e violenze. Eppure, in alcune occasioni, ha agito con modalità che non sentivo di condividere.
Le ragioni della mia parziale diffidenza derivano dal fatto che non credo ciecamente nella genuinità di tutto ciò che proviene da un ambiente ricco, privilegiato e incline alla rappresentazione falsata di sé come Hollywood. In altre parole, non mi fido al 100% di tutto ciò che viene appoggiato con eccessivo entusiasmo da un giorno all’altro in un ambiente in cui le molestie e i ricatti sessuali di personaggi come Weinstein erano a tutti gli effetti un segreto di Pulcinella, così come reputo che, se da un lato il coraggio di parlare – e la sensazione di non sentirsi soli – sia fondamentale per eliminare meccanismi simili, dall’altro non basti un tweet o un hashtag per determinare la colpevolezza di un essere umano, di qualsiasi sesso, specialmente per accuse gravi. Eppure sappiamo che forza distruttiva scatenino queste sassaiole mediatiche. Un boomerang che, paradossalmente, si è rivoltato contro la stessa Asia Argento.
Nell’arco di questi tre anni ho avuto modo di analizzare con più calma e lucidità il valore di un movimento come il MeToo e, superato lo shock iniziale che mi aveva lasciata a metà tra l’entusiasmo e la diffidenza, sento di poter dire che è sicuramente servito e che continuerà a servire nel cammino verso una società egualitaria. Nonostante questo continuano a manifestarsi strumentalizzazioni ottuse e per certi versi dannose alla credibilità del movimento stesso. Le ragioni per cui il MeToo serve, infatti, sono di natura tutt’altro che spettacolare, sebbene il rumore delle denunce sia necessario a destrutturare meccanismi vecchi e opprimenti: l’obiettivo finale dovrebbe essere il potersi sentire in diritto di ribellarsi a uno stato di cose malsano e criminale senza perdere il lavoro né la prospettiva di avere una carriera, qualunque questi siano, non far parlare di sé a scapito della reputazione di qualcun altro per dipingersi paladine e paladini della giustizia.
Woody Allen – per fare quello che è uno degli esempi più eclatanti – è stato fin dai suoi albori preso di mira dal MeToo e ultimamente, con la pubblicazione della sua autobiografia e l’ennesima denuncia della figlia adottiva Dylan Farrow è tornato ad essere oggetto di critiche. Timothée Chalamet ha preso le distanza dal regista devolvendo il cachet ricevuto per A Rainy Day in New York a tre associazioni impegnate contro gli abusi, con un post fatto di ambiguità e di mezze parole a causa delle condizioni contrattuali. Ovviamente chiunque può sporgere denunce, anche false, sta poi alla macchina legale dimostrarne la veridicità. Prima di accusare e giudicare sulla pubblica piazza una persona, però, bisognerebbe quanto meno essere a conoscenza dei fatti. A differenza di quanto ha dimostrato oltre a Chalamet Kate Winslet con le sue ultime dichiarazioni contro il regista.
La mia insofferenza verso vicende del genere non riguarda in alcun modo una generica critica verso le istanze femministe contemporanee, al contrario: chiama in causa proprio ciò che può indebolirne la legittimità. I presupposti di movimenti nati per sanare ingiustizia, ineguaglianza e omertà – come sottolinea Chalamet – non sono certo quelli di fornire l’occasione a personaggi di spicco per poter aderire a una moda coprendosi del fregio di stare dalla parte del giusto, e disegnarsi paladini dell’etica, quando a ben vedere non si comportano altro che da moralisti.
Kate Winslet – una grande attrice spesso attiva per la sensibilizzazione del pubblico su temi sociali – con le sue dichiarazioni su Woody Allen dimostra non solo di non aver capito quale sia in effetti il fine concreto del movimento MeToo e di ciò che ne è seguito, ma anche di non aver avuto l’accortezza di informarsi su fatti molto complessi e delicati come quelli che riguardano Allen. Un’accortezza che, non ho problemi ad ammetterlo, non ho avuto neanche io fino a quando non ho potuto leggere l’autobiografia di Woody Allen, A proposito di niente, uscita nel 2020 e fonte di ulteriori polemiche e di indignazione. Fino a un momento prima di leggerla, infatti, avevo, come probabilmente molti altri, la testa piena di idee false e approssimative su un caso di cronaca che, dagli anni Novanta a oggi, è tornato ciclicamente a far parlare di sé per diversi motivi, primo fra tutti quello di coinvolgere uno dei registi e attori comici americani più famosi e acclamati di sempre in Europa.
So bene che un’autobiografia è per forza di cose un punto di vista parziale e che la storia di Woody Allen raccontata dallo stesso Woody Allen è chiaramente una versione che tende a favorire il diretto interessato, e su questo possiamo essere tutti d’accordo. Ma ci sono dei processi, delle perizie e delle testimonianze che non possono non essere tenute in considerazione prima di lanciarsi in un giudizio così grave e perentorio come quello che dà un’attrice che dichiara di essere stata una folle a lavorare con un predatore sessuale. La stessa definizione di “predatore sessuale” dovrebbe essere utilizzata con cautela ed estrema coscienza, dal momento che si tratta di un’accusa pesantissima che è difficile da togliersi di dosso, anche quando viene provata la propria innocenza, e che dovrebbe ricadere sulla testa di colpevoli conclamati come Harvey Weinstein o Jeffrey Epstein – sempre per rimanere nel mondo dello spettacolo americano.
In generale, credo che il mondo in cui viviamo, quello dei fatti, della legge e delle persone in carne e ossa non sia composto da mostri ed eroi ma da persone che agiscono in modo più o meno conforme a un principio di coscienza, rispetto del prossimo e onestà. Motivo per cui, a mio avviso, demonizzare un presunto colpevole per dipingerlo come un orco senza pietà o un indemoniato è profondamente ingiusto e fuorviante, dal momento che nessuno nasce cattivo, perfido o criminale e ciò che porta un essere umano a compiere atti che vanno contro le altre persone o la comunità intera è una catena di cause, più o meno scomponibile, fatta da fattori socio-culturali, ereditari, ambientali ed economici che si accumulano. Schierarsi dalla parte delle donne che hanno subito soprusi, molestie e violenze è sacrosanto, farlo a prescindere – soprattutto in un caso del genere – è ingiusto, specialmente se, come nella vicenda di Allen e Farrow, ci sono tanti punti discordanti, indagini che negano le accuse e una storia molto lunga e complessa che non si può riassumere in un semplice “Woody Allen è un pedofilo che ha sposato sua figlia e molestato una bambina di sette anni”. E non è così strano che negli Stati Uniti questa sua ultima biografia abbia generato tanto scalpore, al punto da non trovare nessuno che la distribuisse – come peraltro è avvenuto con il suo ultimo film, distribuito solo in Europa e Sud America – visto che, per la narrazione dominante americana – fatta di supereroi e supercattivi, quintessenza della polarizzazione morale, e quindi sociale e politica – un punto di vista sfumato, meno binario, su un personaggio che ormai si è bruciato l’amore del suo pubblico, non fa audience.
Woody Allen, però, a differenza di ciò che vuole la vulgata – alla quale io stessa mi ero sempre affidata negli anni, preferendo una versione semplificata della realtà, molto più comoda e sintetica – non ha “sposato sua figlia” Soon-Yi Previn. Allen ha sposato una ragazza, con la quale continua a vivere in un matrimonio felice e duraturo da più di vent’anni e con cui ha adottato due figlie, che era stata a sua volta adottata da Mia Farrow negli anni Ottanta. La relazione è cominciata quando Previn era maggiorenne e andava al college, Allen non ha mai vissuto in casa Farrow tra i quattordici – e ripeto: quattordici figli adottati da Mia Farrow – bambini e bambine presi in affidamento dall’attrice di Rosemary’s Baby. Le accuse di molestie da parte di Dylan Farrow sono venute fuori dopo che Farrow ha scoperto della relazione tra i due; Allen non è mai stato ritenuto colpevole delle accuse mosse da Dylan (la quale è stata definita plagiata dalla madre, che ha anche registrato un video di lei nuda in cui confessava la violenza) e, soprattutto, Soon-Yi Previn, così come un altro fratello adottato, Moses, ha dichiarato pubblicamente che Mia Farrow l’ha trattata come una figlia di seconda categoria. I figli adottati – alcuni dei quali morti, anche suicidi – erano per Farrow una sorta di trofeo Unicef da esibire al mondo esterno e in tutta la baraonda di accuse piovute sul regista. La voce della presunta vittima, la diretta interessata, raramente è stata presa in considerazione, ma è la stessa Soon-Yi Previn che racconta delle violenze che Mia Farrow la costringeva a subire, sia fisiche che psicologiche, ed è sempre lei che conferma la natura della relazione sentimentale che ha intrapreso con un uomo di trentacinque anni più grande ma che non aveva in alcun modo il ruolo di padre nella sua vita.
Il punto è che Kate Winslet e tutti gli altri attori e attrici che hanno deciso di dichiararsi pubblicamente pentiti per la collaborazione con un regista che, per inciso, ha creato tra i personaggi femminili più interessanti e complessi del cinema americano – basti pensare a Diane Keaton che, non a caso, difende sempre Allen – dovrebbero rendersi conto del fatto che evitare di lanciarsi in giudizi simili su storie tanto complesse e articolate non significa mostrarsi indifferenti alle lotte che portano avanti istanze femministe. Accettare il fatto che una vicenda come quella di Woody Allen, del matrimonio con Soon-Yi Previn, di sua figlia adottiva Dylan e di una figura come Mia Farrow – una donna che si è costruita una famiglia quantomeno particolare e per certi aspetti discutibile – sia troppo complicata per poterla comodamente riassumere bollando il regista come un mostro, non è una sconfitta per un movimento come il MeToo, è semmai una presa di posizione che ne accresce il valore e l’autorità.
C’è una grande differenza tra indossare un abito sociale come quello del femminismo per puri scopi estetici e abbracciare davvero la causa accettando anche i lati più spinosi e indefiniti, come possono essere le migliaia di sfumature di questo caso in particolare, che è anche uno dei più famosi e controversi. Se Kate Winslet e tantissime altre attrici che hanno lavorato con Woody Allen ai suoi film, che non sono affatto pochi, avessero qualcosa da dire, da rimproverare o da segnalare sul suo comportamento, non c’è dubbio che avrebbero tutto il diritto e il dovere di farsi avanti, come è stato fatto nei confronti di molti altri attori, produttori, registi. Ma la storia di Woody Allen e delle sue presunte violenze – smentite, contestate, mai comprovate – resta impregnata di moralismo, pregiudizi e ignoranza sui fatti, che per quanto contestabili, incomprensibili o poco chiari, non si dovrebbero strumentalizzare per la propria immagine di facciata.