"Lacci" racconta perfettamente come i rimorsi dei genitori rovinano la vita dei figli - THE VISION

Gli antichi greci utilizzavano quattro termini per parlare dei sentimenti più forti e positivi. “Philia” era il bene tra veri amici, “storgé” quello per i figli, “agápe” l’amore per il proprio compagno ed “éros” la passione sessuale. Nei secoli la chiesa cattolica ha poi soppresso la distinzione tra le ultime due parole attraverso l’istituzione del matrimonio, contribuendo a creare la convinzione per cui l’insorgere di un desiderio fisico verso un’altra persona al di fuori della coppia costituirebbe la fine del “vero” amore, monogamo. Dalla letteratura al teatro, dalla musica al cinema – pensiamo al più recente caso dell’acclamato Storia di un matrimonio: sarebbe un lavoro non da poco stilare un elenco dettagliato delle opere il cui perno sia la capacità dell’eros di incrinare i perfetti ingranaggi della famiglia tradizionale. Ed è proprio in questo filone che si inserisce Lacci, il romanzo di Domenico Starnone pubblicato nel 2014 da Einaudi, già adattato per il teatro da Armando Pugliese, e da cui Daniele Luchetti ha tratto l’omonimo film, presentato all’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia e prima opera italiana ad aver aperto la Biennale dai tempi di Baarìa, undici anni fa.

Se come scriveva Tolstoj ogni famiglia infelice lo è a modo suo, l’infelicità di Vanda e Aldo e dei loro figli, Anna e Sandro, acquista potenza proprio per il suo essere un’infelicità comune. La storia di Lacci copre un arco di tempo di quarant’anni e parte dagli anni Ottanta, periodo di liberazione dei costumi e di rovesciamento dei valori tradizionali, quando Aldo, dopo essersi sposato giovanissimo per amore e desiderio di indipendenza, confessa a Vanda di essere stato con un’altra donna, Lidia. Non sapendo come reagire Vanda lo caccia di casa e mentre lui esce dalla sua vita, allontanandosi per molti anni anche dai figli, lei riprende a cercarlo, a chiedergli di assumersi delle responsabilità, ad accoglierlo quando decide di tornare. “Mi sono ammazzata. Lo so che dovrei scrivere ho tentato di ammazzarmi, ma è inesatto”, dirà Vanda dopo aver saltato dalla finestra ed essere sopravvissuta. “Io nella sostanza sono morta. Pensi che l’abbia scritto per costringerti a tornare?”. Aldo impiegherà molto tempo per ammettere di essersi innamorato, per rinnegare l’istituzione ormai obsoleta del matrimonio e comunque non arriverà mai a definire il proprio legame con Lidia, e tutto ciò a causa del suo atteggiamento passivo nei confronti della vita. Le sue azioni, infatti, vengono definite dagli accadimenti casuali del tempo più che dalle sue scelte volontarie. Tra i temi affrontati, infatti, oltre all’invecchiare e al logorio del rapporto di coppia, c’è quello della passività. Lacci mette in scena due personaggi che mai sembrano aver avuto in mano la propria vita, preferendo piuttosto lasciarsi trasportare dagli eventi. “Non è solo l’amore ad unire le persone, ma anche ciò che resta quando questo non c’è più. Si può restare assieme per rancore, nella vergogna, nel disonore, nel folle tentativo di tener fede alla parola data”, spiega il regista. 

Se il romanzo di Starnone, inserito nella lista dei cento migliori libri dell’anno del New York Times e vincitore del Bridge Prize for Best Novel 2015, era suddiviso in tre grandi capitoli in cui la voce principale passava da Vanda ad Aldo ad Anna, lasciando al lettore il compito di comporre tutta la storia, il film di Luchetti si avvale di sistematici flashback. È così che scopriamo come le vicende apprese all’inizio siano solo una ricostruzione a posteriori di un passato risalente a quarant’anni prima. Nel presente la coppia è di nuovo insieme, immersa in un rapporto ormai privo di senso e di ogni contatto fisico. Col tempo, il loro matrimonio è invecchiato, portando con sé molte ostentate recriminazioni, nascoste tra gesti indolenti e vaghe tenerezze. “Non mi piaci tu, non mi piaccio io, non mi piacciono nemmeno i miei figli”, afferma Vanda. 

Col dipanarsi degli eventi diventa sempre più difficile prendere le parti, tifare per uno o per l’altra. È vero, Aldo è stato con un’altra donna, ma non per questo ha mai smesso di volere bene alla moglie. Quando una coppia di amici la accusa di essere antipatica, lui la difende. “È difficile soffrire in modo simpatico”. Dall’altra parte, quando a tessere il racconto è finalmente Anna, ormai diventata adulta, Vanda viene messa a nudo e la riscopriamo sotto un’altra luce, quella di una donna che la collera ha reso impositrice, paranoica e ossessiva, imprigionandola in una battaglia che porta avanti forse più per orgoglio e abitudine che per vero interesse. In una delle confessioni più magnetiche del film, la ragazza ricorda di quando, da bambini, la mamma li aveva portati a Roma per spiare il padre con la sua nuova compagna. “Com’erano belli insieme, luccicavano. E in quell’occasione io guardai quella ragazza attentamente e mi si ruppe intorno l’organismo unico di cui ero parte. Pensai: com’è bella, com’è colorata, da grande voglio essere identica a lei. Di quel pensiero sentii subito la colpa, la sento ancora, è una vita che la sento. Mi resi conto che non volevo più assomigliare a mia madre e che perciò la stavo tradendo. Se avessi avuto il coraggio, avrei gridato volentieri: papà, Lidia, voglio venire a passeggio con voi, non voglio stare con mamma, mi spaventa”.

Starnone e Luchetti avevano avuto modo di collaborare già nel 1995, quando il regista romano aveva realizzato La scuola, tratto dai libri Ex Cattedra e Sottobanco, per poi coinvolgere lo scrittore anche in altre sceneggiature. Questa, che è realizzata a sei mani con l’aiuto di Francesco Piccolo, è stato un lavoro minuzioso di selezione dei momenti da trasporre sullo schermo, per capire quale espediente fosse più adatto a renderli. Un compito non facile per una storia che nel romanzo traeva forza proprio dalla stessa struttura letteraria e dalla potenza stilistica di Starnone. Per questo, in alcuni punti, chiunque abbia letto il romanzo può riconoscere nei dialoghi le identiche parole del testo, cosa che negli adattamenti non accade poi così spesso. Le parole sono così indimenticabili che il regista ha pensato a lungo di escludere del tutto la componente musicale dal film, enfatizzandone la drammaticità coi silenzi dei litigi a cui, come i bambini, assistiamo senza sentirne chiaramente le battute. In fase di montaggio, Luchetti ha invece poi deciso di inserire un omaggio a uno dei suoi film preferiti, Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, scegliendo di introdurre nel racconto musicale il letkiss delle gemelle Kessler, utilizzandolo nello stesso modo in cui prima di lui aveva fatto l’altro regista romano.

Nella trasposizione di Luchetti, anche le ambientazioni contribuiscono attivamente alla narrazione. Per molto tempo Napoli è apparsa poco nei romanzi di Starnone, originario di lì, e aveva piano piano iniziato ad acquisire importanza solo col tempo. Dalla pubblicazione di Via Gemito, invece, tutti i suoi personaggi hanno iniziato ad avere a che fare con la città perché, come racconta, in quella lingua sono deposte le sue esperienze fondamentali: i sentimenti, il sesso, i primi affetti. Luchetti la rappresenta spenta, dissestata, perché è qui che Vanda viene abbandonata dal marito ed è qui che resta a misurare l’ampiezza del silenzio e il crescere dell’estraneità. A contrapporvisi c’è la frizzante Roma, dove Aldo si è trasferito per Lidia, con cui i giorni passano lievi e gioiosi. 

A dare il titolo alla storia è il momento centrale del film quando, deciso ad accogliere nuovamente i figli nella propria vita, Aldo si sente chiedere da Anna se sia stato lui a insegnare a Sandro, il più piccolo, ad allacciarsi le scarpe, perché lo fa in un modo ridicolo, diverso da tutti. “Mi imbarazzai. Avevo insegnato a Sandro ad allacciarsi le scarpe? Non me lo ricordavo. E a quel punto, senza una ragione immediata, non mi meravigliai piú che mi fossero estranei, il senso di estraneità era implicito nel nostro rapporto originario”. I lacci sono anche quelli con cui Vanda e Aldo si sono torturati reciprocamente per tutta la vita, giocando le parti ripetitive che le regole del sistema famiglia aveva stabilito per loro. Gli stessi che hanno tenuto insieme la loro relazione ricostruita non per i figli, che da grandi hanno cercato di non diventare come i loro genitori, e nemmeno perché innamorati di nuovo, ma solo per abitudine, perché è più facile “dire poco” e non assumersi la responsabilità di fare così tanto male a qualcuno. A prescindere dalla propria felicità, a prescindere da quella altrui. Lacci è un film dove manca la rabbia, perché i personaggi sono così legati al proprio modo di essere e a come le cose dovrebbero essere da risultare incapaci di esprimerla e usarla per cambiare se stessi e la loro vita. La si intravede alla fine, ma resta lontana, come un monito per ricordarci che i lacci, a volte, è meglio scioglierli, solo così si potrà sperare davvero di essere liberi.

Tutte le foto sono di Gianni Fiorito

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