Eduardo, il genio napoletano che si è fatto maschera per raccontare l’intelligenza dell’animo umano

Qualche anno fa, poco dopo la diffusione virale del fenomeno di Liberato, un’altra band è diventata popolare utilizzando un genere tipico della tradizione napoletana, i Nu Guinea. Il dominio musicale partenopeo per la musica leggera italiana – al di là dei casi più underground che poi diventano mainstream come i due citati – è innegabile, dal momento che il connubio tra dialetto napoletano e hit non si è mai spezzato, né per quanto riguarda i prodotti commerciali né per quelli di nicchia. La canzone che nel 2018 ha sdoganato i Nu Guinea è “Je vuless”, brano tratto dall’album dal nome emblematico Nuova Napoli, citazione di Massimo Troisi. Ancora una volta – come se non bastassero già i secoli di auto-rappresentazione, prolificità culturale quasi del tutto endogena e rivisitazione di qualsiasi mito popolare – Napoli riesce a vendersi come concentrato di coolness. Che si tratti di una canzone, di un film o di una serie televisiva, il fascino della città più incasinata d’Italia non muore mai, pur riproponendosi in modo ripetitivo. Ci sono miliardi di spiegazioni che si possono dare a questo prestigio rappresentativo – la lingua, la storia, il cibo – ma la verità è che esiste qualcosa di irreplicabile nel concetto stesso di “napoletanità”. Nella canzone dei Nu Guinea, oltre al sound che da solo riporta a un filone importante della tradizione musicale partenopea, c’è un dettaglio che aggiunge un ulteriore strato di seduttività alle orecchie di chi ascolta, ed è il testo. Si tratta infatti di una poesia scritta e interpretata nella sua versione più celebre dal simbolo per eccellenza della versatilità culturale di questa città, Eduardo De Filippo.

Cos’abbia a che fare un drammaturgo, attore e regista nato nel 1900 con una canzone electro funk uscita più di un secolo dopo è forse la chiave del mistero di come Napoli sia rimasta un centro pulsante e caotico di creatività. Eduardo De Filippo, al di là della grandezza intellettuale che lo ha reso uno dei personaggi chiave del Novecento italiano, è una figura che ha contribuito in modo centrale a trasformare un sentimento locale in patrimonio nazionale. Una sorta di ponte, non solo tra la diversità linguistica e culturale di un Paese come l’Italia – in cui a distanza di pochi chilometri nella stessa regione si parla e si pensa in modo diverso – ma anche tra le diverse forme di rappresentazione che nel Ventesimo secolo si sono intersecate, sostituendosi e accavallandosi, come il teatro, il cinema e la televisione. Nei suoi ottantaquattro anni di vita – dedicata interamente all’arte – questo ometto nato già un po’ vecchio, magro e baffuto, De Filippo, con la sua voce e il suo aspetto così caratteristici, è entrato a far parte dei personaggi della commedia dell’arte al pari di un Pulcinella: una figura tanto radicata nell’immaginario del Paese da essere diventata un’icona. De Filippo è stato in grado di fare praticamente tutto, caratteristica che lo rende non soltanto un simbolo di un secolo ormai finito – come possono  essere Totò o un’allegoria dell’Italia post-bellica come Sophia Loren – ma anche una figura chiave per la nascita di nuovi generi. De Filippo, infatti, non è solo l’immagine tatuata nella nostra memoria, ma è stato anche un ingranaggio determinante per la nostra produzione culturale.

Considerata la vastità del suo lavoro, concentrarsi solo su un aspetto è riduttivo. Da qualche parte, però, bisogna pur partire. Sicuramente il teatro è l’ambito per cui è stato più conosciuto, e probabilmente anche la ragione per cui – dalla seconda metà degli anni Cinquanta circa e dopo il suo ingresso in Tv – Eduardo De Filippo ha smesso di avere un cognome diventando semplicemente Eduardo, a sottolineare la sua istituzionalità a livello nazionale. Il teatro – forma artistica che nel Novecento ha toccato i suoi ultimi vertici di popolarità e centralità prima di essere sorpassato a livello di numeri da cinema e televisione – è di certo il punto di partenza da cui si può iniziare a capire la portata della sua caratura artistica. Tutto parte dalla compagnia di famiglia che, sdoganando la propria fama fuori da Napoli, porta in giro il teatro umoristico de “I De Filippo” – oltre a Eduardo, c’erano infatti i fratelli Peppino e Titina. Le loro opere arrivano così a trovare un appuntamento fisso con la trasposizione televisiva, mezzo che consacra la loro fama. Una popolarità che – oltre alla qualità umoristica paradossale e stratificata delle trame, legate in modo evidente a una tradizione letteraria di ispirazione pirandelliana – si basa sulla rappresentazione simbolica dell’Italia.

Alberto Sordi, Eduardo De Filippo e Serge Reggiani in “Tutti a Casa”, 1960

Napoli, il suo dialetto e le sue usanze si fanno universali per raccontare tutto il Paese. La famiglia messa in scena – il centro di un’opera che è diventata ormai una colonna portante della nostra tradizione teatrale come Natale in casa Cupiello – è quella dei De Filippo e allo stesso tempo quella di chiunque assista allo spettacolo. Natale in casa Cupiello è un’opera tragicomica, portata in scena per la prima volta a Napoli nel 1931, che si distacca dalla dimensione locale e specificatamente partenopea – conservandone comunque l’atmosfera, l’essenza e il linguaggio – per diventare una sorta di manifesto familiare italiano. Con la scusa del Natale – momento che tutti noi conosciamo bene come apice di isterie familiari, ma anche come occasione di ricongiungimento – si mette in scena un ritratto dei rapporti umani, in particolare quelli tra genitori e figli, i più densi di risentimento e affetto, di nevrosi e di riconoscimento reciproco. De Filippo, con i suoi tormentoni – “Te piace ‘o presepio?” è la frase che il padre Luca ripete al figlio Tommasino in modo ossessivo scandendo tutta l’opera – e la lunga serie di malintesi, fraintendimenti, illusioni, delusioni, rimpianti e rimproveri immersi in questo mondo comico ed estenuante, sfuma la storia fino a portarla a un finale malinconico e disilluso, con la morte stordita e stralunata del padre di famiglia. Come se attraverso la metafora del Natale, inteso come momento di ritrovo forzato, coacervo di infelicità e odio ma anche di responsabilità, affetto e legami indistricabili, avesse voluto mettere in scena la quintessenza del nostro Paese: la famiglia come istituzione arcaica, malata, contraddittoria, ma anche così comicamente irrinunciabile. Un tema centrale che è poi stato articolato da tanti altri grandi registi italiani con atmosfere e registri simili – basti citare Amarcord di Federico Fellini, o il più recente Reality di Matteo Garrone.

Natale in casa Cupiello

La famiglia, in quanto nucleo fondante della società italiana dell’epoca, con tutto ciò di umoristico e tragico che ne consegue, diventa il centro intorno cui si articolano le trame di alcuni suoi film che – per la loro vena cinica, oscura e scettica – rappresentano l’anticipazione di ciò che diventerà la commedia all’italiana. Opere come Napoli milionaria, scritta prima come commedia per il teatro e poi come film con l’aggiunta di Totò – personaggio che in quel momento, il 1950, era già diventato una superstar della comicità partenopea in tutta Italia – o come Filumena Marturano, anche questa prima uscita in teatro e poi al cinema, sono tra i più grandi successi di De Filippo, che traspone sistematicamente il suo materiale teatrale in pellicole che hanno fatto la storia, in un momento in cui il nostro cinema diventava un punto di riferimento internazionale grazie al neorealismo.

Napoli millenaria (1945)
Filumena Marturano (1946)

Oltre a questi nomi più che celebri, infatti, ci sono anche una serie di commedie minori – se così si possono definire – che anticipano una tendenza sia di stile che di contenuti che negli anni del boom economico dominerà il cinema italiano, producendo centinaia di film diventati cult. È in pellicole come Marito e moglie e Ragazze da marito, entrambe del 1952 o riconducibili al cosiddetto “neorealismo rosa” – quel genere che fa virare l’oscurità del neorealismo dell’immediato dopoguerra in atmosfere più leggere e speranzose – che si vede tutto il talento della scrittura di De Filippo. Attraverso il matrimonio – istituzione alla base della famiglia, grazie a cui i personaggi possono ambire a un miglioramento esistenziale ed economico, all’ingresso a tutti gli effetti nel mondo degli adulti e a un’ascesa sociale – e alla figura del senex iratus – classico espediente narrativo che si frappone tra i giovani e la loro missione di crescita – De Filippo mette in scena quella che il critico Roberto De Gaetano definisce la commedia di tipo scettico. E non a caso lavoravano con lui sceneggiatori come Age & Scarpelli o Steno, che in quegli anni ponevano le basi della commedia all’italiana, un genere che senza quello scetticismo disilluso e cinico di De Filippo probabilmente non sarebbe probabilmente mai nato.

Ragazze da marito (1952)

Che Eduardo De Filippo non sia riassumibile in poche opere, in qualche citazione, in una delle sue tante commedie o in uno solo dei suoi film è chiaro, anche perché dal momento che se ne scopre un pezzetto una cosa tira l’altra e il suo lavoro appare immenso e ricco di spunti per capire la storia dell’Italia del Novecento e apprezzare l’universalità di certi racconti che a ben vedere non hanno bisogno di essere collocati in un’epoca specifica per essere compresi. La risposta al punto di partenza, quindi, a quella allure partenopea di cui si nutre ancora oggi Napoli, è riconducibile sia a quel carattere peculiare nato da un contesto socio-culturale unico, sia al modo in cui questa città stata in grado di esportare se stessa e la sua atmosfera. Eduardo De Filippo, simbolo per antonomasia di quel luogo, è stato proprio una di quelle figure che hanno reso tutto questo possibile, traducendo i valori, i sentimenti e i meccanismi di un luogo in un linguaggio universale, in grado di raccontare un intero Paese e di riunirlo, preservando però al tempo stesso un’identità tanto forte e determinata da non potersi confondere con nessun altra. Quel qualcosa in più che continua ad affascinarci in un brano che cita chiaramente il Napoli sound alla Pino Daniele e alla James Senese, e che riutilizza una sua poesia, è proprio la risposta al senso di immortalità dell’arte: non importa se siamo nati a Bolzano o a Lampedusa, le opere di De Filippo, per non dire De Filippo stesso, alla fine è anche un po’ nostro, perché parlando di noi ci ha creati e nel nostro modo di essere e di pensare gli siamo debitori.

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