Il 2020 fa schifo, ma almeno abbiamo un nuovo film di Borat - THE VISION

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Sacha Baron Cohen è finalmente tornato con il suo personaggio più famoso e iconico, Borat. Quattordici anni dopo il primo film che lo vedeva protagonista, intitolato  Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan, è uscito ieri, in esclusiva su Amazon Prime Video, il tanto atteso seguito: Borat – seguito di film cinema. Il lungo sottotitolo, volutamente sgrammaticato, come l’inglese del kazako – Consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan – descrive perfettamente l’origine del secondo viaggio negli Stati Uniti dell’irriverente, offensivo e sempre inappropriato giornalista. Rilasciato a una decina di giorni dalle forse più importanti elezioni presidenziali americane di sempre, la nuova avventura di Cohen è un’utile medium non solo attraverso cui tentare di salvare il mondo, ma anche attraverso cui analizzare come la comunicazione politica – e di conseguenza la satira che se ne prende gioco – sia cambiata negli ultimi anni. 

In una delle scene del primo film, Borat, appena arrivato negli USA, prendeva lezioni di comicità in cui, oltre alla famosa “battuta no” – che consiste nell’affermare una cosa diversa dalla realtà, fare una breve pausa e poi dire “no” – gli veniva spiegato che “in America preferiamo non fare mai battute sulle cose che la gente non sceglie”, come la razza, l’identità di genere, la disabilità e l’orientamento sessuale. All’epoca la Russia bandì addirittura il film dai cinema. Oggi, invece, Borat ci dimostra come si possano dire cose che fino a poco tempo fa venivano relegate alla sfera privata, perché era impensabile dichiararle pubblicamente. Non solo per una questione di rispetto reciproco, ma soprattutto perché era molto più facile incorrere in azioni legali o in una censura. L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti ha completamente cambiato le carte in tavola. Mentre si grida alla fantomatica dittatura del politicamente corretto, di fatto non c’è mai stata così tanta libertà nel dire qualunque cosa si voglia, non avendo più timore delle conseguenze. È lo stesso Cohen a sottolinearlo in un’intervista al New York Times. “Nel 2005 un personaggio misogino, antisemita e razzista come Borat era funzionale a mostrare il vero volto delle persone,” ha dichiarato al quotidiano. “Oggi i razzisti sono fieri di esserlo. Quando è lo stesso Presidente a dichiararsi apertamente fascista, la comunicazione tutta cambia, a partire dal basso”. Se il primo film, girato durante l’amministrazione Bush, non indagava in maniera specifica la politica americana, ma solo la società, il seguito appena uscito è molto più legato all’attualità: gran parte della storia ruota infatti intorno alla pandemia di Covid-19, alle teorie del complotto come QAnon, alla capacità dei social media di alimentare il negazionismo, alle molestie sessuali che hanno portato al movimento #metoo e al suprematismo bianco. 

Borat, condannato ormai da anni ai lavori forzati in un gulag per aver dissacrato l’immagine del proprio Paese nel mondo, viene rilasciato a patto che riesca a consegnare un dono al presidente Trump o a uno dei suoi collaboratori più stretti per far entrare il Presidente del Kazakistan nella “Cerchia dei potenti”. La “bustarella” del sottotitolo altro non è che Johnny The Monkey, ministro della Cultura e porno star più famosa del Kazakistan. Lo scimpanzé non arriverà mai negli Stati Uniti però, perché al suo posto verrà recapitata Tutar, figlia quindicenne di Borat, che durante il lungo viaggio, entrata di nascosto nella cassa del primate per espatriare, lo ha mangiato per sopravvivere. È lei la nuova spalla di Borat in questo secondo viaggio, dopo che il suo mitico produttore Azamat Bagatov è stato ucciso e trasformato in poltrona. La ragazza sogna di trovare un marito americano che, come tradizione kazaka vuole, la rinchiuda in una gabbia. Il suo idolo è Melania Trump, protagonista di un cartone con cui è cresciuta e che mescola tratti di “Cenerentola” ad altri de “La bella e la bestia”. Facile capire chi rappresenti quest’ultima. La missione di Borat, ottenuto il benestare del presidente kazako, diventa allora quella di consegnare Tutar a Mike Pence, vicepresidente della Casa Bianca. La struttura resta quella del mockumentary, cioè di un film di finzione che ricalca lo stile del documentario e che Cohen ha negli anni reso la propria cifra stilistica, registrando le reazioni reali e non filtrate delle persone con cui interagisce. Secondo quanto riportato da IndieWire, l’attore ha rivelato la propria identità solo a Judith Dim Evans, una superstite dell’Olocausto, per metterla al corrente che nonostante fosse lui stesso ebreo, avrebbe usato un linguaggio antisemita per educare all’Olocausto. 

Borat questa volta deve confrontarsi con un grande problema: ormai è il  suo volto è troppo noto, per strada lo riconosce chiunque. Cohen fa di necessità virtù, ed eleva ancora una volta il proprio genio, andando in scena travestito da Borat a sua volta travestito di occasione in occasione da altri personaggi. Un texano, Donald Trump (grazie a cinque ore di trucco e a un’imbottitura gonfiabile), un membro del Ku Klux Klan e un adepto di QAnon. Dietro quest’ultima maschera è riuscito a partecipare a una manifestazione di complottisti, coinvolgendo l’intero pubblico nel cantare insieme, come avvenuto già nel primo film. Se all’epoca il testo della canzone era farcito di riferimenti antisemiti, questa volta il ritornello è centrato sulla “pericolosità di Obama” per l’America e sulla volontà di “iniettargli il virus di Wuhan”. Questo, come racconta Cohen, è il momento che gli è costato più fatica: avendo girato il film durante il primo periodo della pandemia – tanto che si sente ancora Mike Pence dichiarare come i casi negli Stati Uniti siano solo 15 e tutto sia sotto controllo – Cohen è stato costretto a restare nel personaggio per ben 5 giorni, ospitato a casa di Jim e Jerry, due negazionisti che credono che il virus sia stato creato dai coniugi Clinton per poter torturare indisturbati i bambini di cui bevono il sangue. “Mi svegliavo, facevo colazione, pranzavamo e per tutto il giorno, compreso quando andavo a dormire, non potevo spogliarmi per un solo momento del personaggio,” ha raccontato al New York Times. A supportarlo c’è però sempre Maria Bakalova, la giovane attrice bulgara che interpreta la figlia quindicenne di Borat, nonché “la più vecchia zitella del Paese”. È lei la vera forza e rivelazione del film, in grado di eguagliare, se non superare, la bravura di Cohen, fingendosi una ragazza impaurita dalla possibilità di essere risucchiata dalla propria vagina.

Anche se Amazon Prime Video lo ha rilasciato solo ieri, il nuovo film è stato capace di creare uno scandalo già nei giorni precedenti all’uscita. In rete è infatti trapelata una delle scene in cui, prima di tornare nel proprio Paese d’origine, Tutar si finge una giornalista interessata a intervistare Rudy Giuliani, ex sindaco di New York e attuale legale di Trump. Facendogli credere di essere interessata a terminare l’articolo in camera da letto, si è trovata a riprendere con le telecamere nascoste Giuliani con le mani infilate nei pantaloni nel maldestro tentativo di eccitarsi. La replica è arrivata subito: Giuliani ha dichiarato che si stava semplicemente sistemando la camicia. E per quanto il ritmo sia molto diverso da quello del primo film, più improntato allo sketch rispetto al suo seguito, le scene comiche non mancano, come quando Borat decide di riproporre il suo famoso mankini utilizzando due mascherine chirurgiche per trasformarlo in un maskini, come si vede nel poster del film. A questo si aggiungono altri significativi episodi, a partire dalla richiesta di Tutar di abortire fatta a un centro pastorale pro-life, per arrivare al ballo delle debuttanti in cui mostra la propria biancheria sporca di sangue mestruale, che rendono Borat – seguito di film cinema un’opera anche femminista. Dal contrasto con le imposizioni dettate alla figlia per seguire alla lettera il “Manuale per proprietario di figlia”, un libro di istruzioni kazako destinato a ogni padre e redatto dal Ministero dell’Agricoltura e della fauna, Cohen ci mostra tutte le storture dei nostri tempi in termini di diritti delle donne. Non a caso, dopo uno dei finali più geniali di sempre, sullo schermo compaiono due frasi chiare e dirette: “Vota ora, o verrai ucciso”. Le pressioni di Cohen affinché il film uscisse prima dell’Election Day dipendono infatti anche dalla volontà di utilizzarlo per spronare tutte le donne a scegliere attentamente per chi votare. “Perché se sei una donna e non voti contro Trump, allora devi essere consapevole di come la tua scelta influirà su tutte le donne americane”, ha detto sempre al New York Times.

Mettendo alla prova le posizioni delle persone che incontra, libere di sentirsi a proprio agio nel confessare pregiudizi e convinzioni che altrimenti terrebbero nascosti, Cohen smaschera tutti i nostri difetti e non solo per farci ridere, ma per cercare di influire sul delicato voto del 3 novembre. Lo scopo del film non è più quindi solo quello di mostrare il peggio della nostra società, ma anche di rivelare i pericoli insiti negli autoritarismi che stanno prendendo piede negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo. Nella speranza che, con una possibile vittoria di Trump, il 2020 non finisca peggio di come è iniziato, possiamo però tirare un sospiro di sollievo almeno per un’ora. Perché Borat è tornato e noi ne avevamo davvero bisogno.


Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Amazon Prime Video in occasione dell’uscita del secondo film di Sacha Baron Cohen “Borat”, in esclusiva da venerdì 23 ottobre sulla piattaforma. 

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