Borat è la satira perfetta del mondo idiota in cui viviamo, e finalmente è tornato - THE VISION

Mi sono sempre chiesta come accada che alcuni elementi di certi film diventino così iconici da separarsi quasi del tutto dalla loro origine, prendendo vita propria. Citazioni estrapolate e dal senso riconvertito, dettagli di scene che vengono replicate all’infinito su magliette, poster, borse: non so se abbiamo visto tutti Quando la moglie è in vacanza, ma di certo almeno una volta nella nostra vita ci siamo ritrovati di fronte a una stampa di Marilyn Monroe che si tiene il celebre vestito bianco mentre l’aria di un tombino lo fa svolazzare. Non so se Billy Wilder, il regista di Seven Year Itch – come al solito, i titoli originali hanno quasi sempre ben altro significato dalla loro traduzione italiana – immaginasse che si sarebbe rivelata la scena per eccellenza del cinema di quel periodo, trasformando l’attrice americana più famosa degli anni Cinquanta e Sessanta in una grafica per tazze e copricuscini perfetta, ma è successo. E la cosa più triste, oltre ovviamente al destino tragico di Monroe e della sua sovraesposizione tanto esagerata da averla spogliata dalla sua umanità, è che di quella cinematografia rimane spesso solo qualche replica in tarda serata. Il cinema è fatto di immagini e simboli e non è strano che questi vengano rielaborati, metabolizzati e catalogati in altre aree di appartenenza semantica spesso molto meno interessanti o profonde di quelle a cui erano associate in partenza; un destino simile alla gonna svolazzante di Marilyn Monroe, per quanto il paragone possa sembrare azzardato, è il costume verde ascellare che indossava il protagonista del film Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan, e che speriamo di vedergli nuovamente addosso nel 2020, quattordici anni dopo, nel secondo episodio della saga in uscita in esclusiva su Amazon Prime Video il prossimo 23 ottobre.

Travestimento goliardico, l’iconico slip che sale fino alle spalle per lasciare il didietro scoperto grazie a un portentoso ed estremo perizoma è dal 2007, anno in cui è uscito il primo lungometraggio dedicato al personaggio di Sacha Baron Cohen, un pezzo immancabile per molti travestimenti da lì in avanti. Non è strano che quel capo d’abbigliamento così particolare sia diventato tanto riconoscibile, anche slegato dal suo intento originale. Ma è anche fondamentale tenere conto del fatto che quel film, per quanto assurdo e disturbante lo si possa ritenere – ricordo ancora l’espressione basita di mia madre seduta accanto a me al cinema quando andammo a vederlo convinte si trattasse di una commedia leggera e poco impegnata – è una pietra miliare non solo della comicità contemporanea ma anche di una satira che attacca il potere come pochi hanno avuto il coraggio di fare. La storia di Borat, sia quella dei film che delle sue apparizioni televisive antecedenti al lungometraggio, non è solo una sequela divertente e allucinante di trovate esagerate, come il costume da bagno osceno indossato in una spiaggia americana con disinvoltura, ma un vero e proprio manifesto di umorismo e di critica sociale. Motivo per cui, il secondo capitolo di questa saga di mockumentary ideata e interpretata da Sacha Baron Cohen, girato in piena pandemia e in uscita venerdì, poco prima delle elezioni statunitensi, è esattamente quello che serviva a questo 2020.

Borat ha una storia piuttosto lunga che negli anni si è evoluta in modi diversi, così come è accaduto per tanti altri personaggi ideati e sviluppati da Sacha Baron Cohen, ma con la differenza di essere stato probabilmente il più efficace tra tutti: non è un caso che sia stato pensato un seguito per le sue avventure, girate sempre come se si trattasse di un documentario – per quanto non ci sia nessun emittente televisivo kazako ad averlo inviato in Occidente per scoprire la  nostra cultura. Prima ancora del suo famoso viaggio negli Stati Uniti alla ricerca di Pamela Anderson, sua personale fissazione, ma soprattutto del cuore pulsante della mentalità occidentale, delle usanze e dei costumi dei nostri lontani cugini d’oltreoceano, Borat è stato Alexi e Christo. Entrambe le versioni di questo “proto-Borat” trovavano spazio nelle televisioni britanniche, entrambi i finti giornalisti provenivano da un Paese dell’Est Europa – uno dalla Moldavia e l’altro dall’Albania – ed entrambi, esattamente come la versione finale del personaggio, avevano come obiettivo mettere in imbarazzo gli interlocutori, perlopiù altolocati membri della società anglosassone. Sacha Baron Cohen, che non solo è un comico raffinato, intelligente e coraggioso, considerato ciò a cui si sottopone durante i suoi travestimenti spesso rischiosi – al punto di dover indossare in alcuni casi un giubbotto antiproiettili – è infatti un uomo di cultura che ha studiato a Cambridge, perfetto conoscitore della cultura borghese, se non aristocratica – o forse sarebbe meglio dire posh – del Regno Unito. Nel secondo capitolo di Borat, per esempio, sì è spinto così in là nel mescolarsi negli ambienti ristretti ed elitari che racconta da rimanere per circa cinque ore chiuso in un bagno, bloccato tra security e repubblicani, alla convention di Mike Pence,  dove si era recato per offrire in “dono” sua figlia.

Ed è proprio da questa profonda conoscenza di un ambiente sociale ed economico così ristretto, elitario e ridicolo in tutte le sue manifestazioni odierne di ancien régime che muove Sacha Baron Cohen, attraverso i suoi personaggi: motivo per cui, grazie alla maschera da giornalista kazako che indossa, può dire qualsiasi cosa, mettendo in imbarazzo nei modi più disparati le persone che finge di intervistare. A Cambridge, per esempio, ferma alcuni giovani studenti per chiedere loro se sia possibile trovare prostitute alle feste universitarie, suscitando reazioni emblematiche, sia quando sono sconvolte sia quando si dimostrano sorprendentemente in linea con l’atteggiamento a dir poco retrogrado, razzista, maschilista, antisemita e omofobo di Borat. Ed è in questa palude di opinioni becere e orrende che sguazza Baron Cohen, riconvertendo qualsiasi input venga lanciato a chi rimane coinvolto nella sua finzione documentaristica in un paradosso della modernità. Se usando la scusa della maschera fuori dal mondo di un uomo che si vanta della sorella perché è una delle migliori prostitute del villaggio – giusto per citare uno dei tanti tratti allucinanti di questo personaggio – il comico può dire e fare qualsiasi cosa, dall’altro lato è proprio grazie alla sua idiozia volgare e sgangherata che riesce a rivelare il peggio delle persone, soprattutto di quelle che si sentono culturalmente superiori.

Borat diventa così, nel suo modo paradossale e a tratti disgustoso di rappresentare questa versione fittizia di realtà, la cosa più reale possibile, dal momento che le reazioni che colleziona, a differenza delle provocazioni, sono del tutto vere. Così, per esempio, se in Texas intona una canzone esplicitamente antisemita e suggerisce ai presenti in sala di unirsi al coro in cui canta di voler buttare gli ebrei in un pozzo, il fatto che diverse persone non battano ciglio e anzi partecipino allegramente al ritornello non solo è comico per l’assurdità del momento, ma è anche inquietante per ciò che significa. È proprio in questo mix di ironia cinica e fastidio che sta la genialità delle trovate di Baron Cohen, perché è l’esatto opposto di ciò che potremmo definire “politicamente corretto”, ma al contempo non attacca minimamente le categorie emarginate, né se la prende con i deboli per ridere di loro, ma finge di farlo in modo estremo per smascherare coloro che  non perdono occasione per farlo. Si tratta forse del modo più sano e catartico di utilizzare gli strumenti del “proibito” e l’esagerazione quasi nauseante, per mostrare a tutti le storture sociali del presente, in particolare nelle loro declinazioni più razziste, violente e pericolose, e purtroppo sempre attuali.

Il personaggio di Borat e il suo percorso pseudo-giornalistico rimangono quindi un espediente narrativo perfettamente efficace e necessario in un momento storico così assurdo e paradossale come quello che stiamo vivendo, specialmente in un Paese come l’America in cui la pandemia ha preso una piega inquietante e in modo particolare nel mondo dell’elettorato di Trump. Baron Cohen, infatti, non ha mai fatto mistero della sua inclinazione verso una satira progressista che punti a scardinare gli elementi più conservatori della società occidentale, proprio quelli di cui l’attuale presidente degli Stati Uniti si fa portavoce. Ma nella sua carica dissacrante che mina le parti più repubblicane e anti-progressiste del Paese più potente dell’Occidente, Borat è talmente esagerato e surreale da non risparmiare nemmeno il confronto paradossale con femministe, associazioni di tutela per disabili e altre realtà simili; la genialità di Baron Cohen sta proprio qui, nel non far passare mai un messaggio di bullismo o di umiliazione, dal momento che ci pensa Borat stesso a coprirsi volutamente di ridicolo quando si trova in questo tipo di confronti. Il segreto della sua comicità, intelligente e volgare ma mai prevaricante o davvero offensiva, dunque, è permettere di capire da che parte sia giusto stare: se per far ridere hai bisogno di metterti al di sopra di chi stai prendendo in giro allora non hai un granché da dire; se invece riesci a essere tu il primo a non prenderti sul serio e lasci che siano gli altri a rendersi ridicoli allora sì che sai fare il comico.


Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Amazon Prime Video in occasione dell’uscita del secondo film di Sacha Baron Cohen “Borat”, in esclusiva da venerdì 23 ottobre sulla piattaforma. 

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