Sono una di quelle persone che sono scappate dal paese. Come molti altri giovani, mi sono sentita stretta in una realtà di provincia, carente negli svaghi, nelle prospettive, nelle possibilità. I tragici fatti accaduti in questi giorni tra Artena e Colleferro, dove sono cresciuta, mi hanno fatto ripiombare in quella realtà che mi ero lasciata alle spalle, sfiorata occasionalmente durante le feste o le visite alla mia famiglia, in cui ci si informa distrattamente di quello che succede.
Per lavoro, essendo giornalista, ho seguito diversi fatti di cronaca come quello accaduto a Willy Monteiro Duarte: ragazzo di 21 anni, massacrato di botte e lasciato morire per strada. Vederlo accadere nella realtà in cui sono cresciuta, conoscere l’effetto che un atto di violenza del genere ha sulla comunità, è stato duro.
Artena, per molti versi, è una cittadina uguale a mille altre in Italia. Tutti si conoscono, tutti parlano con tutti, tutti sanno tutto: la prevedibile onniscienza della provincia. Per altri aspetti è una realtà diversa dalle altre. Il borgo medievale svetta sulla pianura circostante, remoto e allo stesso tempo vicino, un trionfo di pietra e scalini, in cui si cammina a piedi o con i muli, perché le macchine non possono entrare. Guardando più a fondo, il centro storico appare per quello che è: una città fantasma. L’enorme patrimonio storico e culturale appare come una carcassa abbandonata, così come lo sono la villa romana e la necropoli etrusca sotterrate qualche centinaio di metri più su, a Piana della Civita.
L’abbandono non riguarda solo i beni culturali, ma anche il tessuto sociale. Il paese sembra vivo e vibrante, ma più da vicino ci si rende conto che lo spaccio – soprattutto di cocaina – getta un’ombra su ogni attività che vi si svolge. Questa è sicuramente una delle attività più fiorenti di Artena. Un traffico che ha luogo da almeno 20 o 30 anni, nonostante gli sforzi che alcuni cittadini hanno fatto per cercare di arginare e risolvere il problema.
Gli spazi sociali, nel tempo, sono stati compressi. L’emblema di questa situazione è, ad esempio, il Palazzetto dello Sport, l’unico spazio in grado di ospitare attività ricreative. La struttura oggi però si trova in stato di abbandono, nonostante i lavori siano terminati nel 2005 e il costo dell’opera, rimasta incompiuta, si aggiri intorno ai 2 milioni e 300mila euro. Si erge inaccessibile e in rovina, nella zona periferica della cittadina, e risponde perfettamente alla definizione di “cattedrale nel deserto”. Lo stesso destino di abbandono è toccato a Villa Borghese, il bellissimo parco nel cuore di Artena, un gigantesco spazio verde in cui ormai trovano posto solo le erbacce e di notte i giri di spaccio. Quando la società civile lascia un vuoto, come sempre, è la criminalità a riempirlo.
Ho fatto questa lunga premessa per spiegare come mai l’omicidio di Willy Monteiro Duarte non possa essere derubricato a bullismo, o a malefatta di alcuni delinquenti, le solite mele marce da isolare, come molti hanno cercato di fare. Quanto accaduto a Colleferro, a opera di alcuni ragazzi poco più che ventenni artenesi, è frutto di un lungo processo di abbandono del campo da parte delle istituzioni, che risale a molto prima di quanto accaduto la notte del 5 settembre.
“La verità è che questo episodio sarebbe potuto accadere in ogni parte d’Italia,” ha scritto il sindaco. Eppure, anche se vivo a 800 km di distanza, il fatto che sia successo lì non mi ha stupito. Perché conosco il contesto di impunità, connivenza e omertà che circonda un certo tipo di persone in quella specifica realtà. Non perché gli artenesi non siano brave persone, semplicemente perché l’abitudine alla violenza la normalizza. Queste sono cose di cui si parla al bar, o a cena in famiglia, che tutti sanno, ma che, semplicemente, vengono trattate come dati di fatto ineluttabili.
Chi viene o vive in piccoli paesi sa perfettamente di cosa parlo. Ma per capire il contesto artenese va aggiunto un ulteriore elemento: l’emarginazione sociale che subiscono molti dei suoi abitanti, in un ambiente in cui il lavoro scarseggia e in cui quei meccanismi di protezione che la società dovrebbe fornire sono carenti, troppo deboli per far fronte alla realtà. Le associazioni presenti sul territorio si scontrano con le difficoltà date dalla mancanza di spazi e con un tessuto sociale diviso su cui influisce il totale disinteresse delle varie amministrazioni nel far fiorire reti solidali che possano sopperire alle carenze istituzionali.
I giovani sono tra quelli che più subiscono questo stato di cose. L’abbandono scolastico è un sintomo di questo lassismo istituzionale verso le persone più a rischio. Nella regione Lazio, la percentuale di ragazzi che lasciano prematuramente il percorso educativo si aggira intorno al 12%, secondo gli ultimi dati di Openpolis, ma nel comune di Artena arriva persino a superare il 18%. Un altro sintomo è la totale mancanza di attività o di sani luoghi di aggregazione per i giovani, che spesso finiscono per far da bassa manovalanza ai criminali locali, attirati dalla possibilità di fare soldi facili, da un sotteso ideale di machismo e dal fatto che comunque e in ogni caso non ci sono alternative. Non a caso uno dei fratelli Bianchi scriveva su Facebook: “La vita in ginocchio fatela fà a l’altri”. Ci si trova a fare i conti con una dimensione povera e asfittica, che non offre altro luogo di incontro se non la strada.
In questi giorni sto leggendo molto sui fatti accaduti e su quelli che ancora stanno accadendo. Alcuni sostengono che la colpa sarebbe dell’MMA (le arti marziali), della trap, della movida e dei giovani senza valori, lo fanno anche figure di primo piano del giornalismo e dell’opinione pubblica, che teoricamente dovrebbero guidarci verso una comprensione più profonda di un evento così devastante, invece che aggrapparsi a facili perbenismi. Ma trovare una spiegazione semplice e comprensibile per un problema tanto radicato e stratificato è la cosa più comoda.
C’è poi chi cerca un capro espiatorio nella fascinazione che l’ultradestra esercita su realtà ai margini come Artena, che certo non ne è esente, come testimonia anche la presenza del ristorante Il Federale, “dedicato alle memorie del ventennio fascista”, come si legge sul sito. Ma la verità è che i ragazzi coinvolti nell’omicidio, a parte probabili simpatie superficiali per una certa sponda politica certificata dai like alla pagina di Matteo Salvini, non si occupavano di politica. Non sono presenti associazioni di destra come Casapound e Forza Nuova ad Artena, anche perché il contesto sociale è così sfilacciato da non permettere alcun tipo di aggregazione politica giovanile. Sicuramente però c’è il mito di tradizione fascista dell’uomo forte, spietato, che prevarica per il proprio tornaconto, ed appare come l’unico modello di riferimento fornito.
In questo contesto possiamo capire anche la reazione avuta dalla comunità artenese, a partire dai vertici. L’amministrazione comunale e il primo cittadino, come primo riflesso, hanno voluto allontanare il discredito che un fatto di cronaca può portare sull’intero paese. Sono state date rassicurazioni sul “corpo sano”, sul fatto che l’episodio possa essere inquadrato nell’ambito della violenza relativa alla movida, la solita rissa finita in tragedia, campanelli di allarme di una gioventù allo sbaraglio. Ma questa è la stessa strada che hanno provato a battere alcuni giornalisti, scaricando le colpe su una generazione e non sul sistema che la abbandona a se stessa, economicamente, socialmente e politicamente.
Quegli stessi giornalisti che si aggirano ora per Artena alla ricerca di risposte rimangono stupiti da come i cittadini siano restii a commentare la vicenda oltre le formule di rito, o a raccontare qualcosa del paese. Non sanno che l’habitus preponderante sia l’omertà, appresa in anni di vessazioni, prepotenze e intimidazioni, dove ogni scambio è frutto di compromessi con chi detiene diversi tipi di potere. Alcune cose non vanno viste, non vanno riconosciute per quello che sono, risultano intangibili eppur presenti. Perché in una piccola città tutti sanno tutto e tutti conoscono tutti, ma alcuni conoscono meglio. E nessuno può minacciare l’illusione della provincia beata e del potere benevolo che vi risiede, pena il suo andare in frantumi.