I miei genitori hanno pagato 6mila dollari per farmi rapire - THE VISION

Negli ultimi mesi grazie a TikTok molti adolescenti americani hanno raccontato di esperienze traumatiche legate a quelli che vengono comunemente chiamati Wilderness Therapy Camps. Uno di questi TikTok è intitolato When My Parents Paid Two Strangers 6k To Kidnap Me. Questi centri, pagati e sostenuti dai genitori, vengono utilizzati per trattare problemi comportamentali – che in realtà sono spesso semplici atteggiamenti adolescenziali – o legati alla sfera sessuale di chi è parte della comunità LGBTQ+: i bambini e i ragazzi coinvolti vengono prelevati dai loro letti a loro insaputa in piena notte, coperti e trasportati lontano dalle loro case per vari mesi, durante i quali vengono isolati e sottoposti a sforzi fisici e mentali. Inoltre, la maggior parte di questi programmi è priva di controlli da parte delle autorità federali: tra i 120mila e i 200mila ragazzi vivono in queste strutture, regolamentate dalla legge dei vari Stati, e secondo i dati raccolti dal Government Accountability Office degli Stati Uniti sono stati registrati più di 1500 casi di personale coinvolto in controversie per abusi in 33 di essi. La maggior parte di questi casi riguardava restrizioni eccessive che hanno causato violenze psicologiche e abusi sessuali.

La Wilderness Therapy in realtà esiste sotto diverse forme da più di mezzo secolo, ma ha acquisito particolare rilevanza negli anni Novanta, grazie a opuscoli pubblicitari che promettevano enormi benefici con il potere rigenerativo della natura nel trattamento di qualsiasi problema che i genitori avessero riscontrato nel rapporto con i propri figli, a causa del comportamento dei secondi. Il primo programma moderno di questo tipo fu creato nel 1941 da un educatore tedesco di nome Kurt Hahn, che collaborò con Laurence Holt per addestrare i giovani marinai del Regno Unito. Il programma, chiamato Outward Bound, oggi conta 38 scuole diffuse in tutto il mondo. Successivamente, la Brigham Young University, in Utah, ha istituito nel 1966 insieme a un giovane studente mormone, Larry Dean Olsen – considerato ancora oggi pioniere della Wilderness Therapy – un corso chiamato Youth Rehabilitation Through Outdoor Survival per gli studenti che erano stati sospesi dall’anno accademico: i dirigenti della BYU, che all’epoca appartenevano alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (i mormoni), notarono che gli studenti che partecipavano al programma sembravano andare meglio a scuola e comportarsi meglio in famiglia. Il corso, così, ha ispirato una serie di iniziative simili in tutta la regione e a oggi solo in Utah si possono contare più di 59 programmi di rieducazione – anche grazie al costo più basso della vita rispetto ad altri Stati, come la California, il che fa sì che molti genitori siano più incentivati a mandare i figli lì. Questi programmi si rivolgevano a molti genitori promettendo che i figli adolescenti, trovandosi in situazioni difficoltà, avrebbero vissuto un’esperienza formativa in grado di cambiare il loro temperamento, senza la necessità di ricorrere alle cure psicologiche tradizionali.

Dall’esterno, questi centri possono sembrare comuni centri estivi o cliniche private, ma stando ai racconti di chi c’è passato assomigliano più spesso a veri e propri campi di prigionia, simili a quelli che cinquant’anni fa, in Europa, prima della legge Basaglia, chiamavamo manicomi, dove le regole sul tipo di assistenza per la salute mentale che dovrebbero essere fornite agli ospiti sono quasi inesistenti, e bambini e ragazzi possono essere detenuti per anni senza il loro consenso e senza una reale necessità medica. Il trattamento che gli adolescenti ricevono, spesso, poi, è tutt’altro che terapeutico: la maggior parte dei programmi utilizza sistemi fondati su punteggi e livelli che costringono i partecipanti a guadagnarsi diritti e “privilegi” di base. Questi sistemi sono spesso punitivi e prevedono la privazione di cibo e/o di sonno, l’isolamento, la costrizione a ingerire i propri stessi fluidi corporei, abusi emotivi, fisici e sessuali, esercizi fisici forzati ed eccessivi, metodi di disciplina militare, lavori forzati e mancanza d’acqua.

Questo tipo di industria fraudolenta, chiamata Troubled Teen Industry (TTI), ha prosperato per decenni nonostante le continue accuse di abusi fisici, sessuali, danni psicologici, negligenza e pratiche pseudoscientifiche che hanno causato la morte di decine di ragazzi e di ragazze. Molti di questi programmi sono stati chiusi per poi essere riaperti o sostituiti, anche grazie alle tattiche di multilevel marketing che permettono di mantenere i ragazzi e le ragazze nei programmi più a lungo in modo da ottenere il maggior numero possibile di nuovi clienti, ma anche bonus monetari per i genitori che contattano nuovi genitori, bonus per il personale in base ai bambini iscritti al programma e bonus aziendali per i direttori dei centri. I diffusi abusi istituzionali sui minori sono stati denunciati da molti e ben documentati nel corso degli anni. Si tratta di esperienze in grado di causare disturbi post traumatici che durano tutta la vita, anche a causa del “Codice del silenzio”, una pratica molto comune nella maggior parte dei programmi TTI, che limitano fortemente la comunicazione esterna per controllare i bambini attraverso l’isolamento sociale. Il “Codice del silenzio” può durare per giorni, settimane, mesi, fino ad arrivare ad anni, se lo studente non progredisce come previsto.

Fino al 1995 la conoscenza da parte dell’opinione pubblica di questo settore era molto limitata. Sempre nel 1995, la rivista Outside pubblicò un articolo di John Krakauer intitolato “Loving Them To Death”, in cui il famoso scrittore americano descriveva nel dettaglio sei morti registrate nei mesi precedenti all’interno di un Wilderness Therapy Camp. Eppure, a oggi, negli Stati Uniti ci sono circa 40 programmi attivi per “ragazzi ribelli”. Non è raro che gli adolescenti vengano iscritti a programmi diversi uno dopo l’altro per disturbi comportamentali di vario genere; si tratta di programmi senza un personale adeguato al controllo e alla sorveglianza, in strutture scarsamente controllate, regolamentate attraverso leggi eccessivamente complesse a livello statale. Non esistono standard nazionali di formazione, o controlli dei precedenti penali per i dipendenti e gli educatori. I requisiti di assunzione sono variabili: alcuni richiedono un diploma scolastico e altri semplicemente la maggiore età. Sempre secondo il report del Government Accountability Office molte delle restrizioni applicate nei confronti dei ragazzi sono state causa di fratture, lussazioni e distorsioni.

Non sono solo i genitori a pagare per mandare i propri figli all’interno dei Therapy Camps: un’ampia percentuale di bambini viene inviata in questi centri a scopo di lucro da enti governativi statali o dal sistema giudiziario locale, poiché gli Stati spesso non dispongono di servizi sufficienti per rispondere alle esigenze dei giovani a causa della mancanza di fondi. Questo ricollocamento nelle comunità residenziali offre una facile alternativa. Solitamente, una certa struttura – non per forza un Wilderness Therapy Camp, ma anche centri estivi e ricreativi – può pubblicizzare trattamenti e terapie alternative a problematiche specifiche che non sono disponibili in altri Stati come, per esempio, quelli per i disturbi alimentari o gli abusi sessuali. Nonostante molte associazioni abbiano identificato queste strutture di accoglienza come inadeguate, si mantengono comunque allettanti per tutte quelle località che non dispongono di strutture adatte e che si trovano a dover cercare una soluzione inesistente per garantire supporto economico ed emotivo ai genitori di bambini e adolescenti con esigenze specifiche. Nel momento in cui i pazienti vengono mandati in un altro Stato, poi, vengono automaticamente a mancare la condivisione di informazioni sulle condizioni delle strutture e la prevenzione dei maltrattamenti. Alcuni Therapy Camps rifiutano di comunicare proattivamente con i genitori come “metodo terapeutico”. Il fatto che molti genitori che non riescono a ottenere aiuto dallo Stato si rivolgano a questo genere di organizzazioni dopo essere già passati attraverso la terapia, la riabilitazione, o il ricovero in ospedale, dovrebbe farci riflettere sulla mancanza di un’adeguata rete di supporto a favore della salute mentale, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Considerata ancora un lusso di cui si può fare a meno, quando l’assistenza alla salute mentale dovrebbe essere un diritto.

Tra le vittime: nel 1990, Kristen Chase, 16 anni, è morta a causa di un colpo di calore tre giorni dopo il suo arrivo presso il Therapy Camp in cui era stata mandata. Nel 2000, William Edward Lee, 15 anni, è morto a causa di una lesione cerebrale dopo essere stato fisicamente maltrattato dal personale; nel 2002, anche Ian August, 14 anni, è morto per ipertermia; lo stesso anno, Charles Moody, 17 anni, è morto per asfissia per mano del personale. Nel 2005, Anthony Haynes, 14 anni, è morto mentre veniva punito. Nel 2007, il corpo di Caleb Jensen, 15 anni, è stato trovato avvolto in un sacco a pelo. Nel 2011, Daniel Huerta, 17 anni, è morto mentre veniva trasportato da un membro dello staff presso il Big Cypress Wilderness Institute. Nel 2016, Lane Lesko, 19 anni, è invece morto durante un tentativo di fuga.

Sembra quasi assurdo che tutto questo possa accadere in un Paese che per decenni ha rappresentato per tutti noi un riferimento culturale, e che in realtà dimostra di avere molte più ombre del previsto. Quella della punizione è un tipo di cultura prevalente nella società americana, che privilegia tradizionalmente la repressione come mezzo per risolvere i problemi sociali anziché l’educazione, la prevenzione e il supporto: questo fenomeno, non a caso, è fortemente legato alla politica, alla religione, alle credenze sui bambini e alla cultura popolare, ed è storicamente più influenzato da queste forze piuttosto che dalla ricerca scientifica, dai dati accademici, dagli studi riguardanti l’esperienza personale dei soggetti o dalle statistiche sulla criminalità. La cultura della punizione – che tra le sue conseguenze annovera un sistema carcerario sovraffollato, una maggiore probabilità di riabilitazione fallita e una minor attenzione alla povertà e alle disuguaglianze economiche – rappresenta una sfida per la giustizia sociale che nel 2023 non dovrebbe esistere, ma che invece si fa sempre più necessaria in un Paese in cui in alcuni Stati picchiare i bambini è ancora considerato legale in nome della disciplina.

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