Alcuni giornali dicono 20mila, altri 30mila. Non Una di Meno arriva a contarne 150mila. D’altronde è sempre così, finito il corteo inizia la lotta tra questura e organizzatori sul numero di manifestanti, con i media in mezzo. Per chi c’era è difficile credere che ci fossero solo un paio di decine di migliaia di persone, ma è possibile pensare che ce ne fosse qualcuna in meno di 150. In ogni caso i numeri contano poco: mentre nel centro di Verona parlava chi lotta per una società di diritti scelti per persone selezionate, per le strade sfilavano quelli che si battono per le libertà di tutte e di tutti, nel tentativo di superare la logica per cui ci debba essere qualcuno che sceglie a chi dare quali diritti in base a convinzioni politiche o religiose.
Salendo sul treno per Verona, in partenza dalla stazione Centrale di Milano, è facile individuare due o tre gruppetti di persone che con ogni probabilità stanno andando a manifestare. Giovani e meno giovani, portano cartelloni e indossano il pañuelo fucsia, simbolo di riconoscimento della lotta femminista di Non una di meno, il collettivo organizzatore della due giorni di contromanifestazione. Ci sono tutte le generazioni: X, millennial, baby boomer, Z e qualche esponente di quelle precedenti e successive. Scesi alla stazione di Verona Porta Nuova, intorno alle 14.00, una piazza sterminata e assolata regala una sensazione chiara: la città, oggi, è occupata, assediata, inondata da una marea colorata e pacifica, ma determinata. E non c’è retorica nel dire che oggi più che mai è importante essere presenti nelle strade e nelle piazze in occasioni come queste, per contrastare un vento reazionario che vuole rimettere in discussione i diritti conquistati grazie ad anni di lotte politiche, negando quelli di coloro che, in molte parti del mondo compresa l’Italia, cercano ancora a fatica di ottenere riconoscimento: persone gay, trans, famiglie arcobaleno, donne. In particolar modo la manifestazione di Verona è un momento importante perché oggi la lotta femminista si è presa carico anche delle battaglie sociali e civili che dovrebbero essere trasversali nella sinistra progressista, da tempo assente di fronte alla rinnovata forza delle destre violente nel linguaggio e, spesso, anche nei modi. Questi spazi di aggregazione di tutti e di tutte sono diventati quindi i più trasversali e inclusivi, tra i pochi a portare sul tavolo del dibattito pubblico non solo i diritti delle donne, ma anche quelli dei poveri, degli omosessuali, dei migranti e di tutti coloro a cui il capitalismo e il patriarcato hanno tolto qualcosa.
Mentre in piazza Bra, di fronte all’Arena, sfilano sul palco i fondamentalisti cattolici di tutto il mondo, e qualche politico che vuole accaparrarsi i loro voti, dal piazzale di fronte a Porta Nuova alle 15.00 parte il corteo sotto gli sguardi – a tratti incuriositi, a tratti divertiti e solidali e a volte critici – di chi si affaccia dal proprio balcone. Sono quattro chilometri all’incirca, da lì a Porta Vescovo, e nelle ore di corteo pare che siano stati tutti, costantemente, occupati da gente in marcia. Ci sono i partigiani e le partigiane dell’Anpi, a cui viene dedicato qualche coro durante il percorso; c’è ArciGay, l’associazione che dagli anni Ottanta si batte per l’inclusività, e c’è la rete DiRe, di cui fanno parte oltre 80 centri antiviolenza di tutto il Paese. C’è la Cgil e c’è Susanna Camusso. Ci sono i Sentinelli di Milano, un movimento nato per difendere i valori della laicità dello Stato, contro ogni forma di pregiudizio, omofobia e fascismo. C’è Famiglie Arcobaleno, l’associazione nata nel 2005 per sostenere quei nuclei che, per il ministro Fontana, “non esistono” – eppure sabato sembravano piuttosto reali quei bambini che vestivano cartelloni glitterati e marciavano felicemente sulle spalle delle loro mamme o dei loro papà. Ci sono i gruppi locali di Non una di meno: c’è Brescia, piccolo ma rumoroso, che porta con sé anche qualche compagna parigina e spagnola; ci sono Verona, in testa al corteo, Trieste e Milano.
Simboli politici pochi, si intravedono un paio di bandiere del Partito Democratico messa come una sorta di mantello. Tra la folla si confonde qualche esponente dell’opposizione: ci sono Pippo Civati, l’eurodeputata Elly Shlein, Monica Cirinnà e Laura Boldrini, vittima anche in questo caso di codardi quanto beceri attacchi – nel caso di Libero anche vagamente incomprensibili sul piano logico. Nessuno del Movimento 5 Stelle, che in questi giorni ha fatto il diavolo a quattro pur di dimostrare al Paese che no, loro non sono come la Lega e ai diritti ci tengono davvero. Eppure si trovano al governo insieme alla Lega come fedeli alleati, eppure il logo della Presidenza del Consiglio è stato concesso dal Dipartimento dell’Editoria, guidato dal sottosegretario Vito Crimi, eppure al congresso c’era anche una di loro, la senatrice Tiziana Drago.
Il corteo non passa per il centro, lo costeggia in un paio di punti in cui i cori si alzano di volume e cambiano di tono. Momenti di reale tensione però, non ce ne sono e la polizia, diversamente da quanto accaduto nella giornata precedente a Padova, dove ha caricato un piccolo corteo disarmato di antifascisti, rimane al suo posto. Lo stesso fanno i manifestanti. Le voci e le mani della gente si rivolgono verso una direzione precisa, il palazzo della Gran Guardia, dove si trovano gli illustri ospiti del sindaco Sboarina, che ha pensato di conceder loro gratuitamente gli spazi che ospitano il congresso (a un’organizzazione internazionale con un budget annuale di oltre 200 milioni di dollari che fa pagare l’ingresso con cifre che vanno dai 15 ai 1.250 euro). Sul palco sfilano Salvini, Bussetti e Fontana, tre ministri della Repubblica italiana, più Giorgia Meloni, segretaria di Fratelli d’Italia. Tutti e quattro non hanno perso l’occasione per sprecare minuti preziosi del tempo che avrebbero potuto spendere a parlare davvero di incentivi alla famiglia, per concentrarsi su due temi principali: il siparietto politico degli attacchi a chi in questi giorni li ha criticati, e la campagna elettorale in vista delle europee.
Salvini ha dimostrato tutta la sua incoerenza, vestendo i panni dell’uomo a favore delle libertà mentre ribadiva più volte che tali libertà sono da considerarsi tali solo “a casa propria”, “nella propria camera da letto” – sminuendo le richieste di riconoscimento di centinaia di famiglie arcobaleno e persone gay e trans che non hanno nessuna intenzione, giustamente, di essere la polvere che viene nascosta sotto al tappeto – e, aggiungerei, anche per chi decide lui, visto che ha sottolineato più e più volte che si riferiva alla coppia “tradizionale”. Stesso discorso vale per Fontana, che nonostante abbia esordito con una sorta di minaccia (“Forse non sapevano chi nominavano quando hanno nominato me”) ha sottolineato più di una volta come le misure per il sostegno alla famiglia del suo governo vogliano essere indirizzate soprattutto alla donna, unica e sola titolare del dovere di cura. Giorgia Meloni ha poi toccato livelli altissimi di onestà intellettuale quando ha dichiarato che, non solo è nel torto chi le fa notare che lei si professa paladina del matrimonio quando ha un figlio avuto nell’ambito di una convivenza more uxorio, ma sbaglia, perché lei è talmente onesta che non pretende che lo Stato riconosca a lei gli stessi diritti che riconosce a una coppia sposata. “Credo in una società in cui a ogni scelta che fai corrispondono delle conseguenze e te ne assumi la responsabilità.” È evidente che Meloni non ha ancora capito che non tutti guadagnano diverse migliaia di euro al mese, tanto da ritenersi tutelati e tutelate in caso di morte del compagno o divorzio. Quello della povertà dev’essere un concetto estraneo anche a Fontana, che si è dato delle arie per il fatto – del tutto normale – che tutte le donne della sua vita lavorano; forse crede che la babysitter o le tate siano al servizio delle famiglie con due genitori che lavorano per spirito volontario cattolico.
Gli interventi politici al World Congress of Families sono inquietanti per due motivi. Da un lato, come è ovvio, perché è disturbante vedere come ancora nel 2019 ci siano persone che non riescono ad accettare il fatto che la società è fatta di individui con desideri, esigenze e idee diverse dalle proprie e che non ha senso combattere per togliere loro diritti e libertà di scelta.
La seconda è che, se per qualcuno i loro discorsi possono risultare efficaci, coerenti e di “buonsenso”, è solo perché riescono a celare bene la loro intolleranza dietro slogan apparentemente innocui. Dietro quel “w la famiglia” non sembra proprio esserci una reale volontà di sostegno alle famiglie, ma quella di escludere determinati nuclei non ritenuti titolari degni di diritti; dietro quel “desiderio di sostegno alla donna nel conciliare famiglia e lavoro” c’è il messaggio velato per cui la responsabilità della cura ricade solo sulle madri, le mogli, le compagne, schiacciando anche i diritti di quei padri che vorrebbero stare a casa con i propri figli appena nati ma non possono perché il congedo di paternità praticamente non esiste; dietro i motti per la difesa della vita dei feti si nasconde l’assenza totale di interessamento per le libertà di una persona già formata, la donna, e anche di coloro che le sono accanto e che la sostengono.
Ma soprattutto, come sempre è stato nella storia, dietro alle istanze conservatrici, che puntano all’idealizzazione delle tradizioni, cristallizzate nel tempo, e della “naturalità” delle cose, è nascosta la difesa dello status-quo, di un’impostazione della società in cui i diritti vengono negati alle masse, mentre chi è in grado di permetterselo può e potrà sempre percorrere la strada del privilegio per beneficiarne. È per questo che Salvini e Meloni possono ergersi a campioni del matrimonio pur non avendo dimostrato interesse o rispetto per questa tradizione nella vita privata, e che Fontana può parlare di quanto le donne della sua vita siano libere e indipendenti: sono dei privilegiati.
Le lotte femministe sono molto più importanti per chi di privilegi non ne ha, perché ha bisogno di vedersi garantiti i diritti per non rimanere per sempre sui gradini più bassi della società.