Siete sicuri di voler vivere in un Paese dove tutto è deciso solo dalla “volontà popolare”?

Il governo bicefalo gialloverde, ossessionato dal controllo sulla massa e dalla massa del controllo – intesa come peso specifico della propria narrazione – ha trasformato il Festival di Sanremo in un’arena politica. I motivi ricalcano il Dna delle due sponde: alla Lega prude il naso per la vittoria di un ragazzo italiano con un padre egiziano, mentre il M5S scalpita per sproloquiare sulla dicotomia élite-popolo – probabilmente perché nella giuria c’era Severgnini e non Travaglio. Tutto perché il televoto aveva premiato Ultimo, ma la giuria degli esperti e la stampa hanno portato alla vittoria Mahmood, secondo un sistema di voto e un regolamento noti da tempo. Eppure, entrambe le forze politiche, figlie bizzose dello stesso padre (il populismo), si sono appellate alla volontà popolare. Un meccanismo sintetizzato perfettamente da Umberto Eco: “Il populista è colui che crea una immagine virtuale della volontà popolare”.

Mahmood
Ultimo

Per Eco, infatti, il populista “trasforma in quel popolo da lui inventato una buona parte dei cittadini che affascinati dall’immagine virtuale finiscono per identificarsi in essa”. L’invenzione del popolo si riallaccia a quel tema che è la matrice di tutte le divagazioni successive del nostro presente politico: il popolo non esiste. Il concetto di popolo è un’astrazione: in sociologia, con esso si intende un’entità che non è sociologicamente definibile e nemmeno omogenea nei suoi tratti. Essendo astratta, non esiste fisicamente. Eppure, in politica il termine viene usato e abusato per creare un’opposizione a qualcosa che rientra nella stessa denominazione. Nell’accezione gialloverde, gonfia di retorica, un metalmeccanico che non arriva a fine mese fa parte del “popolo”, mentre un ricco scrittore no, perché è considerato “élite”. Tuttavia è ovvio che il popolo dovrebbe comprendere, nel suo significato più esteso, tutte le classi sociali, e non solo le protagoniste di una presunta revisione della “lotta di classe”.

Esiste invece la manipolazione di quest’entità astratta per perseguire un fine politico. Si crea l’immagine del popolo italiano contro l’invasore straniero, e gli effetti diventano reali. Per alimentare il sentimento popolare è necessario far leva su una contrapposizione immaginaria. Luigi Di Maio riferendosi alle vicende sanremesi ha scritto su Facebook: “Non ha vinto quello che voleva la maggioranza dei votanti da casa, ma quello che voleva la minoranza della giuria, composta in gran parte da giornalisti e radical chic. E qual è la novità? Questi sono sempre più distanti dal sentire popolare e lo hanno dimostrato anche nell’occasione di Sanremo. Ringrazio Sanremo perché quest’anno ha fatto conoscere a milioni di italiani la distanza abissale che c’è tra popolo ed élite. Tra la sensibilità dei cittadini comuni e quella dei radical chic”.

Intanto viene da chiedersi chi siano questi radical chic della giuria, e perché abbiano questa denominazione. La lotta politica basata sull’idea di Joe Bastianich come nemico del popolo, pensandoci bene, appare ridicola. La “sensibilità dei cittadini comuni” di cui parla Di Maio non è altro che la summa del pensiero grillino: un invito all’invidia sociale, alla delegittimazione delle competenze. Una giuria, per lui, è l’equivalente di un gruppo di privilegiati. È il popolo che deve decidere su qualsiasi tema. Anche sull’economia, dove non conta il parere del Fondo Monetario Internazionale o delle più prestigiose organizzazioni mondiali: se loro criticano le scelte del governo sono dei nemici da dare in pasto a un invisibile agglomerato di persone – il popolo, appunto. Poi però la recessione diventa reale, come predetto dai professoroni radical chic nemici della gente, il sancta sanctorum dell’economia. Perché le competenze contano più di uno slogan, ma sono meno utili per raccattare consensi. Ma se il M5S usa il concetto di popolo sfruttando la frustrazione della gente e l’odio sociale, la Lega lo fa seguendo i suoi personali fini: creare un pericolo inesistente e gonfiato (l’invasione) per assumere il ruolo di difensore della Patria.

Salvini si nutre della presunta volontà popolare. Quando posta sui social la foto di un piatto di pasta, non fa altro che trasmettere l’immagine del cittadino comune, come a dire: “Mangio gli spaghetti come voi, dunque sono uno di voi”. La politica costruita sul concetto “uno-di-voi” è l’umiliazione della massa, modellata per fini elettorali e inconsapevole di essere finita in questo gioco manipolatorio. Sia per Salvini che per Di Maio, la volontà popolare in realtà non è altro che la brama di un plebiscito. Svilire il ruolo del Parlamento rientra in questa prospettiva, così come rifugiarsi nel sostegno del popolo per difendersi dalla Legge – cioè quello che sta facendo Salvini, con un modus operandi che ricorda da vicino quello di Berlusconi. Il Cavaliere contestava la magistratura dicendo che era stato “democraticamente eletto”, e quindi non poteva essere processato. È un controsenso giuridico e politico, come se l’elezione donasse un’immunità speciale, anche per i delinquenti.

Intanto i due vicepremier hanno chiesto una modifica delle regole di Sanremo. Sì, il Paese è in recessione tecnica ma conviene parlare d’altro. E di cosa vuoi parlare dopo Sanremo se non di Sanremo, magari cavalcando le consuete polemiche sul vincitore? Quindi hanno chiesto il pieno potere del televoto: niente più giurie, soltanto il popolo da casa a votare. Lo stesso popolo che raggira le regole usando i call center per comprare voti, o che negli anni ha fatto vincere Il Volo, Marco Carta, Valerio Scanu o Povia. Questa soluzione rientra nella logica della distruzione delle competenze: il critico musicale non conta nulla, così come un medico per la questione dei vaccini o un costituzionalista quando si parla di referendum. “Mio cugino ha detto che i vaccini fanno male” ha una valenza superiore al giudizio di un immunologo.

La politica odierna si basa su questo, anche se non è una novità. La volontà popolare ha scelto Barabba, ha legittimato dittature e appoggiato politiche sanguinarie. Hitler e Mussolini avevano il sostegno del popolo, hanno gonfiato le loro figure aggrappandosi proprio all’esasperazione di una vicinanza distorta con la gente. L’immagine di Mussolini che miete il grano è la rappresentazione finale di questo paradosso, del “sono come voi” che oggi assume forme diverse, senza cambiare sostanza. Creare un’entità, il popolo, usarla per un tornaconto personale e fondersi con essa è l’Abc dell’autoritarismo e la lapide della democrazia.

Sia il più illuminato degli statisti che il più sanguinario dei dittatori ha bisogno di legittimare le proprie azioni politiche, e per farlo si affida alla sua creazione, a quel popolo che non è altro che il riflesso del leader di turno. Ridotta all’osso, è una forma più o meno sofisticata di indottrinamento: il leader pretende di parlare a nome di tutti, generando un sentimento collettivo che rende reali certi astrattismi. Durante il ventennio fascista, Mussolini non convinse le persone a odiare gli ebrei, le convinse a credere che quell’odio fosse già insito nella loro natura. Così oggi: l’azione di Salvini è quella di creare l’ologramma di un popolo intollerante, come se fosse naturale. E alla fine, per mezzo della suggestione, quell’ologramma di trasforma in realtà, e la gente diventa intollerante sul serio.

Il popolo sovrano, quello che il governo vorrebbe trasformare nel popolo sovranista, è l’annullamento del singolo individuo. Raggruppare diverse teste in un’accozzaglia indistinta è la convenienza del politico che diventa realtà. Ennio Flaiano diceva: “I nomi collettivi servono a fare confusione. Popolo, pubblico… Un bel giorno ti accorgi che siamo noi; invece credevi che fossero altri”. Ma senza quella confusione i politici annasperebbero alla ricerca di una nuova narrazione, costretti a considerare il popolo per quello che è: un insieme di soggetti, e per questo incatalogabile. Neanche con il voto popolare.

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