Negli ultimi giorni la figura di Vittorio Feltri è tornata al centro del dibattito, un dibattito viziato ma purtroppo non di poco conto. In gioco infatti non c’è solo l’ennesima battuta scorretta, ma il ruolo stesso del giornalismo italiano.
Questa volta, commentando le condizioni di salute di Andrea Camilleri, il direttore di Libero ha scritto che la consolazione “per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni”. Il commento ha giustamente generato sdegno, in particolare in Paolo Borrometi e Sandro Ruotolo, giornalisti antimafia, che hanno scritto una lettera al presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Verna: “Caro Presidente, abbiamo deciso di autosospenderci dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l’iscrizione all’albo professionale di Vittorio Feltri”. A questa lettera è seguita anche una raccolta firme per chiedere la radiazione di Vittorio Feltri dall’albo, che in pochi giorni ha superato le 80mila adesioni.
Invece di entrare nel merito della vicenda, il presidente dell’Odg Carlo Verna ha pensato bene di soffermarsi sul “modus operandi” dei due giornalisti, che sarebbe incompatibile con le regole dell’Ordine, in quanto l’autosospensione è un istituto che non esiste e non è disciplinato da alcun regolamento interno. E poco importa che proprio Vittorio Feltri calpesti quel regolamento da anni, come dimostrano le condanne per diffamazione a suo carico – fra le sue vittime ci fu persino il giudice antimafia Antonino Caponnetto. La mancata presa di posizione del presidente dell’Ordine lascia quantomeno perplessi poiché sembra manifestare la rinuncia dell’ente alla sua funzione di garante della professione e della professionalità.
A proposito di professionalità, Feltri dal canto suo ha abbozzato una claudicante giustificazione, presentando le sue parole nei confronti del maestro siciliano come semplici opinioni riguardo un suo personaggio letterario. Ma un punto va chiarito fin dall’inizio: questa ennesima e inutile boutade non è classificabile come “opinione”. Per essere tale, una posizione personale ha bisogno di essere argomentata, spiegata, sostenuta attraverso tesi dimostrabili. Quelle che escono dalla bocca di Vittorio Feltri, lungi dall’essere opinioni, sembrano piuttosto deprecabili tentativi di spararla più grossa degli altri. Il meccanismo di premiazione è lo stesso delle gare di rutti: vince chi lo fa più forte, e non c’è bisogno di indagare come quel rutto si sia “formato”, secondo quali criteri o meccanismi il “ruttatore” sia riuscito a modulare le vibrazioni dell’esofago. Contano solo i decibel raggiunti.
Spinta dal dilagante individualismo della nostra società, e alimentata dai dispositivi social, in Italia si è andata sempre più perfezionando la totale relativizzazione della parola: si è elevato il “questo lo dice lei” a misura del tutto. A una tesi, un’idea, un’opinione non viene più riconosciuto valore perché puntale, autorevole o corretta: diventano meritevoli d’attenzione solo in base al volume, in decibel appunto. Non esiste più differenza dunque tra un’opinione o un rutto, sono entrambi potenzialmente validi, e così è diventato difficile distinguere il pensiero di un giornalista dal rumore emesso da qualcuno che ha semplicemente problemi di digestione. Oggi sono tutti giornalisti, o tutti campioni di rutti – e se sono iscritti all’Albo, sono tutti ugualmente tutelati dall’Ordine professionale, basta che paghino la quota annuale.
L’insulsa “sparata” su Camilleri è solo l’ultima in ordine di tempo, probabilmente una delle più inopportune, ma non la più grossa. Prendiamo ad esempio le posizioni esposte negli ultimi tempi da Feltri sul riscaldamento globale. O meglio, non esiste nessuna posizione di Feltri: il direttore editoriale di Libero si è limitato a qualche insulto rivolto a Greta Thunberg – siamo tutti d’accordo che quando un uomo di 75 anni insulta una ragazza di 16 non siamo davanti ad una provocazione, ma solo ad un esempio di triste vecchiaia – accompagnati da una sfilza di informazioni prive di fondamente scientifico sul cambiamento climatico. Un tema questo che ben si presta a chiarire la differenza tra un’opinione e una semplice cazzata, visto che in campo scientifico, fortunatamente, esistono criteri certi di valutazione.
Dopo il famoso “Vieni avanti Gretina” rivolto all’attivista svedese, che veniva apostrofata come “rompiballe”, intervistato da La Zanzara Feltri ha spiegato che “Non gliene frega nulla del surriscaldamento del pianeta. Anche perché il pianeta si surriscalda a volte e a volte si raffredda. I cambiamenti climatici sono ciclici”. Ecco, questa non è classificabile come “opinione”, è semplicemente una cazzata. Su pochi temi scientifici esiste un consenso ampio come sul riscaldamento globale. Il 97,1% delle ricerche accademiche concorda sul fatto che il global warming è un problema reale e che è in gran parte provocato dalle attività umane, mentre il restante 2,9% di studi è pieno di errori, come ha ampiamente dimostrato uno studio pubblicato su Theoretical and Applied Climatology. È quindi assodato che chiunque neghi il global warming si colloca sullo stesso livello di un terrapiattista. E se a negarlo è un giornalista, allora siamo davanti a un caso di mala informazione, di inquinamento del dibattito pubblico. Un caso che va contro i doveri del giornalista, sanciti dalle carte deontologiche.
Il Testo unico dei doveri del giornalista, all’articolo 2 stabilisce che il giornalista “difende il diritto all’informazione e la libertà di opinione di ogni persona”. Ma come si capisce cosa è meritevole di difesa? In questo la deontologia professionale non è poi così oscura, e infatti specifica che il giornalista “ricerca, raccoglie, elabora e diffonde con la maggiore accuratezza possibile ogni dato o notizia di pubblico interesse secondo la verità sostanziale dei fatti”. Non c’è bisogno di dilungarsi ulteriormente nello spiegare che le tesi di Feltri riguardo il clima – come su Camilleri, sull’Islam o le donne – non rispettano nessuno di questi criteri, e sono piuttosto l’ennesima sparata simile a quella di un anziano signore che passa il suo tempo libero a commentare i titoli della Gazzetta dello Sport. Anzi, stando a quello che dice il direttore di Libero, il suo interesse, più che sportivo, è decisamente anatomico.
Vittorio Feltri potrebbe quasi essere accostato a uno dei tanti pensionati che popolano le piazze di provincia italiane, quelli che ogni tanto strappano una risata ai passanti con qualche commento ardito o con qualche bestemmia contro il “governo ladro”. E invece, proprio in quanto giornalista e direttore di testata e quindi rappresentante di un’intera categoria, Vittorio Feltri è uno dei principali artefici del progressivo e inesorabile deterioramento della dignità professionale dei giornalisti. E non solo grazie ai titoli del suo quotidiano, tra cui si annoverano i vari “Dopo la miseria portano le malattie”, “Bastardi islamici”, “Comandano i terroni”, “Più patate, meno mimose”, dei quali prima si vanta e poi scarica la responsabilità su altri – altro comportamento che basterebbe a inquadrare la professionalità del direttore e fondatore di Libero.
Ma quell’anziano dalla voce rauca di cui i programmi “di approfondimento” si contendono la presenza – nella disperata speranza che regali qualche ascolto in più – è anche l’inventore del cosiddetto “metodo Boffo”. Nell’estate del 2009 iniziarono a circolare racconti e testimonianze riguardo le frequentazioni con alcune prostitute di Silvio Berlusconi, al tempo presidente del Consiglio. Uno dei quotidiani più critici fu Avvenire, spesso attraverso gli editoriali dell’allora direttore Dino Boffo. Il 28 agosto del 2009 Vittorio Feltri su Il Giornale accusò Boffo di essere “incoerente”, presentando un’informativa che ritraeva Boffo come un molestatore omosessuale. Nonostante il gip di Terni abbia smentito l’autenticità del documento pubblicato da Il Giornale, il 3 settembre Boffo si dimise dalla direzione di Avvenire. Tre mesi dopo Feltri scrisse sul quotidiano: “La ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali”. Feltri fu poi sospeso per 6 mesi, poi ridotti a tre, dall’Ordine dei giornalisti. L’espressione “metodo Boffo” è entrata da allora nel lessico della politica e dell’informazione italiana, diventando sinonimo di campagna a mezzo stampa basata su illazioni e bugie allo scopo di screditare qualcuno per ragioni politiche. Ecco qual è il principale contributo di Vittorio Feltri al giornalismo italiano.
Feltri fa parte di quella categoria di creature figlie del più becero berlusconismo, o più in generale, della società dell’opportunismo. Come già accaduto a Emilio Fede, sembra aver da tempo rinunciato a qualsiasi deontologia, ed è ormai vittima del suo stesso personaggio. Non siamo davanti a un agent provocateur capace di scardinare pregiudizi – piuttosto li alimenta – o di elevare il dibattito smascherando le ipocrisie – al più se ne fa portatore. Il personaggio di Vittorio Feltri ha un unico obiettivo: occupare la colonna di destra dei siti all-news nella disperata speranza che questo faccia vendere qualche copia in più al suo giornale. E quindi, che differenza c’è oggi fra Vittorio Feltri e Pamela Prati?
In questi anni da più parti si è proceduto alla svendita e all’umiliazione dei valori professionali del giornalismo. Non è un caso se la fiducia in questa categoria è ai minimi storici, e la responsabilità maggiore è da imputare ai giornalisti come Feltri.
Per ridare centralità e reale valore al diritto sancito dall’art. 21 della Costituzione, va ribadito che c’è differenza tra un’opinione e un rutto. Una differenza che, con buona pace dei più, ha poco di opinabile. Una differenza su cui dovrebbe esprimersi proprio l’Ordine dei giornalisti, altrimenti tanto vale cominciare tutti ad allenare l’esofago.