Era il 1948, la neonata Italia repubblicana cercava faticosamente di ricostruirsi dalle macerie della guerra e Vittorio De Sica firmava Ladri di biciclette, capolavoro neorealista incentrato sull’amara vita di un povero padre di famiglia e del suo bambino. Nel film, il protagonista trova lavoro come attacchino comunale ed è costretto a dare in pegno le lenzuola di casa per comprarsi una bicicletta, mezzo necessario per svolgere quell’impiego. Il primo giorno di lavoro però, mentre prova a incollare un manifesto, un uomo gli ruba la bici e si dilegua tra la folla, dando inizio alla struggente odissea che vedrà padre e figlio andare alla ricerca del mezzo rubato, il quale è anche l’unico simbolo di speranza per loro affinché una vita migliore sia possibile.
Oltre settant’anni dopo in Italia la situazione è tornata simile. Basta camminare per le strade delle nostre città per accorgersi dello sciame a due ruote che sfreccia a qualsiasi ora, affollando piazze e stazioni ferroviarie. Alla guida di queste biciclette troviamo i rider, i nuovi lavoratori di una piccola branca della gig economy, ovvero quella ormai colossale forma di organizzazione dell’economia digitale che affida a piattaforme informatiche il suo modello di funzionamento.
Negli ultimi anni in Italia il numero dei rider è cresciuto esponenzialmente e oggi supera di molto le 10mila unità. Recenti studi, come il XVII rapporto annuale dell’INPS del 2018, hanno sottolineato come la composizione all’interno di questo popolo sia più frammentata di quello che si potrebbe pensare. Se infatti la stragrande maggioranza di questi lavoratori è di sesso maschile, under 30 e vede nel food delivery una possibilità non troppo impegnativa e a breve termine di guadagnare qualcosa per mantenersi e magari pagare gli studi universitari, sta crescendo in modo significativo il numero di persone più anziane, quasi sempre padri di famiglia, per cui questo mestiere diventa in breve tempo il principale lavoro e l’unica fonte di sostentamento. A questi deve aggiungersi ovviamente la moltitudine di ragazzi stranieri con permesso di soggiorno che trovano in questo impiego una facile occasione per tenersi occupati e una via di fuga dalla noia e dalla stasi che li attanaglia nei centri d’accoglienza in cui molti di loro vivono. Senza dimenticare infine le possibili e già documentate derive criminali ai danni degli immigrati irregolari e riconducibili a una sofisticata forma tecnologica di caporalato digitale.
La repentina esplosione di questo fenomeno globale e il continuo aumento del numero delle adesioni hanno ragioni chiare e allo stesso tempo molto discusse, tanto da arrivare a prendere il tema dei rider come esempio paradigmatico di tutto ciò che è ideologicamente ed eticamente criticabile in questa nuova forma di lavoro, la quale in nome del progresso finisce spesso per aggirare diritti che dovrebbero essere considerati inalienabili. Just Eat, Deliveroo, Uber, Glovo sono le principali imprese di consegna di cibo in Italia: sono tutte straniere e tutte offrono ai loro collaboratori la possibilità di guadagnare oltre 12 euro all’ora scegliendo come e quando lavorare. Diventare rider per queste aziende è semplicissimo, basta completare la procedura online e ritirare l’attrezzatura necessaria: casco, giacca, zaino, caricabatterie portatile per essere sempre rintracciabile e sostegno per il telefono da inserire sul mezzo di trasporto. Ovviamente tutto ciò ha un costo, circa 65 euro, che verrà poi scalato dalla busta paga del primo stipendio, mentre la bicicletta e la sua manutenzione sono di esclusiva responsabilità del rider. Una volta scaricata l’applicazione sul cellulare e firmato il contratto digitale, che quasi sempre è un semplice attestato di collaborazione, si è pronti a entrare nel sistema e prendere il primo ordine.
Non esiste un salario orario minimo, si è pagati a cottimo. Più consegne si fanno e più si guadagna, più chilometri si percorrono e più il prezzo della consegna si alza. I rider vengono a tutti gli effetti considerati, a partire dalle stesse società che li assumono, come lavoratori autonomi. Si tende infatti a inquadrare l’effettiva possibilità di scegliere il giorno e la durata del proprio turno lavorativo in un orizzonte di tipo imprenditoriale, nel quale il lavoratore è libero artefice della propria fortuna, ma anche l’unico a farsi carico del rischio d’impresa. Dopotutto è indubbio che la grande maggioranza dei rider, specialmente i più giovani, inizino a intraprendere questa attività proprio perché allettati dalla possibilità di lavorare nelle ore libere, senza grande impegno o fatica.
Peccato che questa tanto sbandierata flessibilità, per il modo in cui è configurata, più che una risorsa per il lavoratore diventi alla lunga una potentissima arma di potere nelle mani dell’azienda. Se infatti i rider fossero veramente autonomi, non si vede il motivo per il quale dovrebbero sottostare al rigido processo di rating che invece regola la loro reale aspettativa di guadagno. Tutti i dati e le statistiche dei loro turni lavorativi vengono registrati e analizzati da un particolare algoritmo che, basandosi su alcuni fattori come affidabilità, costanza e disponibilità, li divide in gerarchie e attribuisce loro un determinato punteggio. Ovviamente più soddisfacente è il rating, più alto sarà il punteggio e di conseguenza maggiori saranno le possibilità di prenotarsi nelle fasce orarie, a pranzo e soprattutto la sera, in cui è più intenso il flusso delle domande e maggiore il guadagno.
Questo è strettamente legato all’altro decisivo snodo della questione, quello dei diritti e delle tutele, che poi è il principale motivo per cui sempre più spesso sindacati e numerosi ciclofattorini sono scesi in piazza a manifestare il loro dissenso riguardo alle attuali condizioni di lavoro. Seppur l’assenza di un contratto che riconosca la subordinazione del rider nei confronti dell’azienda – con relativi turni prestabiliti, stabilità oraria e retribuzione minima assicurata – sia ben vista, secondo il già citato rapporto dell’INPS, da oltre un terzo dei lavoratori, è esigenza comune alla maggioranza quella di veder riconosciute maggiori garanzie e protezioni assicurative. Abbiamo visto come l’attuale sistema spinga i rider a effettuare il più alto numero di consegne nel minor tempo possibile, scegliendo come mezzo la bicicletta per ridurre i costi e ottimizzare i ricavi. Per fare ciò i rider finiscono spesso col prendersi grandi rischi, non rispettando il codice stradale o pedalando per chilometri su strade pericolose e mal illuminate, oltre a farsi carico di qualsiasi tipo di imprevisto che può accadere nelle varie fasi di ricezione, trasporto e consegna dell’ordine. Ogni secondo guadagnato equivale a una paga migliore, anche se l’incidente è sempre dietro l’angolo, specialmente in grandi città. Se ti ammali o ti infortuni e non lavori, scendi di livello e riparti dal basso. Fino a pochi mesi fa per poter richiedere l’idoneità assicurativa si doveva essere ricoverati in ospedale per almeno tre giorni, il che equivaleva a far collassare il proprio punteggio. I massimali di risarcimento di Deliveroo per danni irreversibili vanno dai 12mila euro per la perdita di un occhio ai 50mila per la morte o l’invalidità. Nessun giorno di ferie o malattia, praticamente nulla la fiscalizzazione da parte dello Stato e altissimo il guadagno delle imprese, sulle quali aleggiano ancora molte ombre e problemi di trasparenza riguardo al loro vero ammontare delle tasse pagate in Italia. Tutto ciò per prendere in media, se si lavora regolarmente ogni giorno, 800 euro al mese. Ne vale davvero la pena?
In questo caotico quadro il governo, nella figura del ministro Di Maio, ha latitato per mesi per poi intervenire quest’estate in modo largamente insufficiente nel “decreto salva imprese”. Le norme previste infatti intervengono principalmente sul problema delle assicurazioni e non modificano il rapporto di forza sbilanciato fra azienda e lavoratore, in quanto non riconoscono a quest’ultimo la necessità di un contratto subordinato e non intervengono in modo migliorativo sulla sua precarietà retributiva. Ai rider e a tutti i lavoratori ancora ostaggio del vecchio ricatto che pone i diritti in antitesi al guadagno, non resta perciò che continuare, come stanno facendo, la loro lotta associativa e sindacale sul territorio, non necessaria solo a loro, ma a chiunque di noi, per non tornare di colpo come in un brutto incubo al 1948 e finire come il padre di Ladri di biciclette, soli e spogliati della più basilare delle dignità.