L’11 settembre 2017 la Procura di Napoli Nord ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta per istigazione al suicidio ai danni di Tiziana Cantone. L’indagine era stata avviata contro ignoti il 14 settembre 2016. Il Gip non si è ancora pronunciato in merito. “Le parole choc del giudice” titola Oggi in un articolo del 13 settembre. Ma di scioccante, di fatto, c’è poco, considerato che l’articolo 580 del Codice Penale, quello che appunto disciplina il reato di istigazione al suicidio, presuppone un elemento di dolo. Vale a dire, quei famosi sei video pubblicati in rete senza il consenso della Cantone dovevano essere stati diffusi con la consapevolezza che la ragazza sarebbe potuta arrivare a un gesto estremo. Il fatto poi che l’inchiesta fosse contro ignoti ha tolto ogni dubbio sulle eventuali conclusioni del caso. A livello giuridico, quindi, non può essere istigazione al suicidio. Come lo si definisce allora?
Vediamo. I video passano dal telefono di Tiziana a quello di altri quattro ragazzi, di diverse zone d’Italia, con i quali la stessa Cantone dice di avere “relazioni virtuali”. Il 25 aprile 2015 i video finiscono in rete e diventano di pubblico dominio. In tutto questo, il ruolo dell’ex fidanzato, Sergio di Palo, rimane da definire, ma è stato ipotizzato che nel passaggio dal telefono di Tiziana a quello degli altri quattro individui poi indagati per diffamazione ci abbia messo del suo. Lui, invece, ha sempre ribadito di esserle “stato vicino nei momenti bui”.
Ricapitolando, materiale privato e sessualmente esplicito viene reso pubblico all’insaputa e senza il consenso della diretta interessata. Pazzesco quanto tutto ciò ricordi la definizione che l’Oxford Dictionary dà di revenge porn. Peccato che per la legge italiana questo non esista. I commenti sulla storia della Cantone sono stati innumerevoli, infiniti i tentativi di individuare un colpevole, per mettere un punto alla storia e poter trovare una nuova vittima da ostracizzare al primo passo falso. Il fronte del “se l’è cercata” ha fatto la voce grossa e ha detto la sua, mentre chi riteneva che il suicidio della ragazza non fosse esattamente capitato per volontà divina si è freneticamente lanciato in una caccia al colpevole. Generalmente il web ha finito per essere condannato, con una criminalizzazione di un mezzo – la rete – del tutto controproducente, che ha portato a perdere di vista il vero punto nodale di tutta la faccenda: il revenge porn e il vuoto legislativo che ancora gli permette di restare impunito. Questa realtà continua così a crescere indisturbata e sono ormai vari i Paesi che hanno deciso di inquadrarlo come un reato a sé stante. Gli USA, essendo il primo Paese in cui il problema si è manifestato, sono anche i più avanzati in ambito legislativo. Una legge a livello federale non esiste, ma sono previste sanzioni a livello statale in 34 Stati e nel distretto di Washington. Nel 2014 un tribunale tedesco ha emesso una sentenza in favore di una vittima di revenge porn. Si è poi vista riconosciuta la possibilità di richiedere l’immediata cancellazione di materiale privato a contenuto esplicito dai telefoni o dai computer degli ex partner su cui è memorizzato in modo illecito.
La Danimarca, nel 2017, ha approvato nuove leggi che prevedono fino a due anni di detenzione per chi diffonde immagini esplicite dell’ex partner contro il suo consenso, con la possibilità per la vittima di ricevere supporto psicologico. Israele, dal 2014, lo riconosce come un reato sessuale. In Australia è illegale in due Stati: New South Wales e Victoria. E, piccolo fatto sorprendente del giorno, le Filippine sono state il primo Paese a criminalizzare questo comportamento, già dal 2009, con una legge che prevede almeno tre anni in carcere per chi viene riconosciuto colpevole. E l’Italia? Nel caso del cyberbullismo il dibattito pubblico è ormai piuttosto sviluppato. Il primo passo verso questa maggiore consapevolezza è stato fatto con la Dichiarazione dei Diritti in Internet, voluta dalla presidente della Camera Laura Boldrini e pubblicata il 28 luglio 2015. Questa non ha alcun valore giuridico, vero, ma quantomeno ribadisce la necessità di definire concettualmente entro lo spazio pubblico una serie di norme e valori chiari che regolino la rete. Poi il 17 maggio 2017 arriva la legge n.71 sul cyberbullismo, entrata in vigore il 18 giugno 2017 e ad oggi non ancora applicata. Problema: tutela solo i minori. E quanti anni aveva la Cantone? Trentuno, quando si è impiccata.
C’è poi la questione delle risorse a disposizione per gestire il problema. È il Garante della Privacy a occuparsi della rimozione di contenuti illeciti online, e lo fa con un unico ufficio a Roma e con un personale di 113 individui. Una situazione insostenibile – riferiscono dall’Ufficio del Garante – considerata la mole sempre in crescita di richieste cui si trovano a far fronte. Il revenge porn però non è esattamente cyberbullismo. È molto peggio. È una violazione brutale della sfera più intima della persona, della sua fiducia e della sua privacy. E secondo uno studio della Cyber Civil Rights Initiative la maggioranza delle vittime (il 73% del campione considerato) avrebbero più di 18 anni, con una netta maggioranza femminile. Le statistiche italiane sono introvabili, ma come si è visto nel caso della Cantone, l’Italia non è estranea al fenomeno. Con la differenza che ad oggi qui non esiste una legge specifica per disciplinarlo. L’unico, timido, tentativo si è visto il 26 settembre 2016, con la proposta di legge dell’Onorevole Sandra Savino, deputata di Forza Italia, che si è però arenata presto e non ha portato a nulla. Ho chiesto all’On. Savino perché fosse andata così. Mi ha risposto che «purtroppo il fenomeno viene ancora liquidato come marginale e poco urgente dallo stesso legislatore». E così per casi come quello della Cantone l’unica cosa che si può fare è valutare di volta in volta e poi procedere, ad esempio, per diffamazione o per trattamento illecito di dati… o per istigazione al suicidio, il che significa però essersi mossi decisamente troppo tardi.
Ho chiesto poi all’Onorevole se la legge n. 71 costituisca una risposta adeguata. «Nello specifico la legge 71 è un segnale positivo di attenzione da parte del Parlamento verso i soprusi che avvengono in rete», mi ha risposto. «Tuttavia per molti aspetti non rappresenta un argine efficace verso problemi come quello del revenge porn. Inoltre quello del cyberbullismo è un problema preliminare e diverso, rispetto a quello in questione, nel senso che nel caso degli atti di bullismo, siano essi commessi in rete o per strada, è necessaria, assieme alla legge, un’azione educativa che non può non vedere insegnanti e genitori coesi nel trasmettere al ragazzo il senso del rispetto per l’altro. Qui invece si tratta di dare una risposta severa, chiara e penale a veri e propri atteggiamenti criminali commessi da persone adulte, che lo Stato non può porsi il problema di educare come ragazzini e che risponderanno per le loro azioni».
Sono in molti a pensare che una legge contro il revenge porn sia superflua e che gli strumenti normativi a disposizione siano sufficienti, che si tratti soltanto di una questione di educazione civica. Ma forse quell’educazione dovrebbe partire dal riconoscere un preciso comportamento come criminale, a cui si accompagnino sanzioni o pene detentive ben precise. Avremmo più consapevolezza, si arriverebbe a pensare questa realtà con la stessa serietà e urgenza con cui oggi si pensa al cyberbullismo. Idealmente, si arriverebbe a pensare al revenge porn come un reato a sfondo sessuale.
Perché è di questo che si tratta. Si potrebbe anche pensare di smetterla con la narrativa del “se lo merita, avrebbe dovuto pensarci prima”, quel senso di colpa legato a una visione del sesso libera e serena che tanto piace ai benpensanti. Forse, così, un altro caso come quello di Tiziana Cantone eviterebbe di finire nelle pagine di cronaca delle testate internazionali e di diventare il campanello d’allarme per un vuoto legislativo che in Italia non si è ancora riusciti a colmare. Magari l’unico modo per mettere il punto a questa vicenda non è nascondersi dietro l’impossibilità di trovare un colpevole preciso, ma ripensare alla risposta normativa al problema. Chissà. Intanto però i legislatori continuano a non cogliere l’urgenza del problema, la Boldrini invita la madre della Cantone a Montecitorio (perché altro non può fare), mentre donne e ragazze continuano a pagare un costo psicologico che spesso non riescono a sopportare. Quante e quanto spesso non si sa, perché in Italia il problema non viene studiato.