80 suicidi dall’inizio dell’anno a oggi. La vita in carcere è insostenibile ma ce ne freghiamo. - THE VISION

Mentre scriviamo, i suicidi nelle carceri italiane nel corso dell’anno sono arrivati a 80, il dato più alto degli ultimi ventidue anni, ovvero da quando Ristretti Orizzonti, giornale della casa di reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca, pubblica il suo dossier annuale “Morire di carcere”. Il numero complessivo sale a 85, se si contano anche i cinque poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita nell’ultimo anno. La quasi totalità delle morti sono avvenute per impiccamento, otto per asfissia e una per dissanguamento. Il precedente primato negativo risale al 2009, quando il numero totale di suicidi si attestò a 72. Non solo, come sottolinea Antigone, l’associazione che si occupa di diritti dei detenuti, in quell’anno “i detenuti erano circa 7.000 in più”. Se poi paragoniamo il tasso di suicidi in carcere a quello del mondo esterno, il fenomeno assume contorni ancora più drammatici: secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, risalenti al 2019, in Italia si uccidono 0,67 persone ogni 10mila abitanti. In carcere il rapporto sale a 13 ogni 10mila detenuti: venti volte di più che nel mondo libero. 

​​Gli ultimi sono avvenuti entrambi domenica 20 novembre. Un detenuto di 42 anni di origine marocchina si è tolto la vita nel carcere fiorentino di Sollicciano. Si sarebbe impiccato dopo aver bloccato dall’interno la serratura della cella. Anche il detenuto nigeriano di quasi 40 anni, arrestato il 17 novembre per concorso in estorsione, si è ucciso impiccandosi nella sua cella del carcere di Foggia con un lenzuolo legato alle grate del bagno. Si tratta del quinto suicidio registrato nel penitenziario foggiano dall’inizio dell’anno: è il carcere che conta più suicidi in Italia. “L’uomo non sarebbe dovuto nemmeno entrare nel carcere di Foggia, poiché secondo la legge Severino (porte girevoli) vecchia di anni ma mai rispettata, un arrestato deve essere portato in carcere dopo l’udienza di convalida, e non prima”, ha commentato il segretario nazionale Sappe, Federico Pilagatti. Solo lunedì 14 un altro detenuto tossicodipendente si era ucciso nel carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino, impiccandosi con una cintura legata all’inferriata della sua cella. Aveva quarant’anni, era originario della provincia di Salerno e si trovava in carcere da una sola settimana. Dall’inizio dell’anno sono stati “quattrocentonovantuno i tentati suicidi negli istituti penitenziari e sessantaquattro i tentati suicidi in Campania: grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria si è evitata una strage. Questi dati sono allarmanti, considerando che non sono mai stati così alti dall’inizio del secolo, in carcere il suicidio è la prima causa di morte”, ha dichiarato il garante dei detenuti della regione Campania Samuele​ Ciambriello.

Come si evince dal report di Ristretti Orizzonti, quasi un quarto di queste persone – precisamente 21 – avevano meno di trent’anni. I più giovani, due detenuti di Milano San Vittore e Ascoli Piceno, ne avevano soltanto 21. Delle 80 vittime, cinque erano donne, un numero particolarmente alto se si tiene presente che la percentuale della popolazione detenuta femminile rappresenta solo il 4,2% del totale. Il dato appare ancor più impressionante, se paragonato agli anni passati: secondo i dati pubblicati dal Garante Nazionale, infatti, sia nel 2021 che nel 2020 soltanto una donna si era tolta la vita in carcere. Nel 2019 non si era invece verificato nessun caso di suicidio femminile. Molto alto anche il numero di persone di origine straniera sul totale dei suicidi: 34 – ossia il 44,1% dei casi totali. Tenendo conto che la percentuale di stranieri in carcere è a oggi leggermente inferiore a un terzo della popolazione detenuta totale (17.854 su 56.225), questo significa che il tasso di suicidi è significativamente maggiore nei detenuti di origine straniera rispetto agli italiani: il primo è infatti quasi il doppio del secondo. Molti dei detenuti che si sono uccisi, poi, si trovavano in carcere per reati minori e sarebbero usciti di lì a poco. È il caso di un ragazzo originario del Gambia, imprigionato nel carcere Lorusso Cutugno di Torino per aver rubato un paio di cuffiette.

La maggior parte dei detenuti che si sono uccisi avevano già tentato il suicidio, combattevano con problemi di tossicodipendenza e soffrivano di problemi psichici. Alcuni di loro aspettavano da mesi un posto in una Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza destinate ai colpevoli di reato con disturbi mentali. Tra questi un uomo di nome Francesco Iovine, 43 anni, detenuto nel carcere di Poggioreale, a Napoli, da novembre 2021 per piccoli reati. Soffriva di anoressia, pesava appena 43 chili ed era ricoverato nel reparto Sai (Servizio Sanitario Integrato) del carcere. Sarebbe uscito dal carcere nel 2024, ma ha deciso di porre fine alla sua esistenza il 7 agosto del 2022, impiccandosi. Poche settimane dopo, un uomo di 44 anni si è impiccato nel carcere di Caltagirone, in provincia di Catania. Si trovava agli arresti perché accusato di aver rubato un telefonino e un portafoglio, sottratti al botteghino del Teatro Massimo Bellini e poi subito restituiti ai proprietari. Il 44enne era già da tempo in lista d’attesa per essere inserito in Cta (Comunità Terapeutica Assistita), poiché affetto da “psicosi NAS [non altrimenti specificata, ndr] in soggetto con disturbo di personalità borderline e abuso di alcolici” e per tale ragione sottoposto al regime della “grande sorveglianza” al fine di prevenire ed evitare episodi di autolesionismo. “Nonostante il regime di particolare cautela nei confronti dell’uomo, quest’ultimo ha avuto la possibilità di allestire i mezzi per riuscire nell’intento suicidario senza che nessuno se ne accorgesse”, ha dichiarato la sua legale, Rita Lucia Faro.

Una questione, quella della salute dei detenuti, per cui l’Italia è già stata condannata a inizio anno dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu). Il motivo è nello specifico il trattamento inumano riservato a un detenuto con gravi problemi psichiatrici, che sarebbe stato tenuto in una prigione ordinaria, quella di Rebibbia di Roma, nonostante i tribunali nazionali e la Corte europea ne avessero ordinato il trasferimento in una Rems. In molti casi, la mancata tutela della salute delle persone in carcere è legata alle lunghe liste d’attesa che i detenuti con disturbi mentali devono rispettare prima di ricevere le cure specialistiche. Cure che spesso si rivelano tardive o che, nei casi peggiori, non possono essere somministrate perché il paziente è già arrivato a togliersi la vita. A questo si aggiunge la carenza elevata di specialisti psichiatrici e psicologi nelle carceri: sia nel 2021 che nel 2022, la media si attesta attorno alle 10 ore a settimana ogni 100 detenuti per gli psichiatri e attorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. A Monza, in particolare, è stata riscontrata un’elevata presenza di detenuti affetti da patologie psichiatriche, mentre il 50% della popolazione è tossicodipendente. A Foggia, sempre secondo Antigone, vi è invece un educatore ogni 190 detenuti. Di fronte a un quadro così desolante, i detenuti si arrangiano come possono: secondo i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone Onlus, nei primi otto mesi del 2022, sono state registrate 10,5 diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti; 20,5 detenuti su 100 assumono stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi; mentre quasi 40 detenuti su 100 prendono sedativi o ipnotici.

Il fenomeno drammatico dei suicidi è strettamente collegato al problema del sovraffollamento delle carceri. Al 31 dicembre del 2021 il tasso di sovraffollamento si attestava al 107,4%, ma in alcune regioni era anche più alto – in Puglia 134,5%, in Lombardia 129,9%. Restando in Lombardia, a fine marzo l’affollamento a Varese era del 164%, a Bergamo e a Busto Arsizio del 165%, e a Brescia il Canton Monbello arrivava addirittura al 185%. Non è un caso, allora, che le carceri dove sono avvenuti la maggior parte degli eventi suicidari quest’anno siano proprio quelle con gravi problemi di sovraffollamento o le case circondariali, ovvero quegli istituti destinati ai detenuti in attesa di giudizio o con pene inferiori ai cinque anni, ma che spesso sono costrette a ospitare anche condannati con pene gravi e definitive. Per esempio, nel caso di Foggia, Regina Coeli e Monza, il tasso di sovraffollamento si aggira intorno al 150% della loro capienza. È bene ricordare, inoltre, che, secondo quanto stabilisce l’art. 3 della Cedu, ogni detenuto deve avere a disposizione almeno 3 metri quadri minimi all’interno della sua cella. Uno spazio per detenuto inferiore a quello viene considerato dalla Cedu inumano e degradante. Se prendiamo come esempio il carcere di Canton Mombello a Brescia, uno dei più sovraffollati d’Italia, che conta 334 detenuti, a dispetto di una capienza di 189 posti, e un tasso del 185% di occupazione, ci si accorge di come rispettare lo standard minimo diventi impossibile: qui, infatti, il rapporto è di 1,85 persone ogni 3 metri quadri.

Il neoministro della giustizia Carlo Nordio si è recentemente espresso sul tema carceri. Nordio, rispondendo a una domanda dei cronisti, ha ribadito che la questione delle carceri “sarà una – sua – priorità”. Per il ministro, la pena non deve coincidere necessariamente con il carcere. “La certezza della pena,” ha sottolineato Nordio, “prevede che la condanna deve essere eseguita, ma questo non significa solo carcere e soprattutto non significa carcere crudele e inumano che sarebbe contro la Costituzione e i principi cristiani”. Per il premier Giorgia Meloni la soluzione per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri non è la depenalizzazione, ma la responsabilizzazione. “Ben venga ogni riforma del codice penale che depenalizzi e riduca il carcere ad extrema ratio”, ha dichiarato Meloni in sede di replica al dibattito sulla fiducia in Senato, lo scorso 26 ottobre. Per il presidente del Consiglio, inoltre, “il problema delle carceri “ va “affrontato ampliando gli spazi e creando condizioni di vita migliori”.

Di diversa opinione il Garante dei detenuti della regione Lazio, Stefano Anastasìa: “Il carcere in Italia è un grande ospizio dei poveri. Gli autori di gravi reati contro la persona o in associazione con organizzazioni criminali non arrivano a 30mila unità. Perché tenerne in carcere 56mila, e domani 60 e dopodomani 70, come qualcuno pensa sia giusto prevedere?”, ha scritto sul Riformista. “Che società vogliamo essere? Extrema ratio o ospizio dei poveri? Investire nel reinserimento sociale o nella costruzione di nuove carceri? Dalla risposta a queste domande vengono tutte le scelte politiche successive, e anche la chance di restituire ai detenuti la speranza in un futuro degno di essere vissuto”. Da anni le associazioni per i diritti dei detenuti avanzano proposte per arginare il fenomeno suicidario nelle carceri, come la necessità di investire nel reinserimento sociale e nelle pene alternative per i reati minori, la creazione di spazi e contesti che rispettino la dignità e i diritti dei detenuti, l’aumento del tempo a disposizione per le telefonate ai propri cari, l’incremento del personale per la salute psicofisica e una maggiore attenzione al momento di ingresso e di uscita dal carcere, che sono le fasi più delicate del periodo di detenzione, in cui avvengono la maggior parte dei suicidi. Eppure, lo Stato sembra restare sordo a queste richieste. Una sconfitta non solo per il sistema carcerario, ma per l’intero apparato statale, che si mostra incapace di proteggere gli ultimi della società e di assicurare loro la funzione rieducativa della pena, come peraltro stabilito dall’articolo 27 della nostra stessa Costituzione.

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