Il 6 aprile la Corte di Cassazione di Torino ha accolto il ricorso della sostituta procuratrice generale Elena Daloiso per il caso che aveva coinvolto il torinese Massimo Raccuia, soccorritore e istruttore del 118 accusato di aver stuprato una collega durante una pausa lavorativa. I fatti risalgono al 2011, ma la sentenza di primo grado si era conclusa con un’assoluzione: secondo i giudici, la vittima non sarebbe stata attendibile perché “Aveva detto basta, ma non aveva urlato o pianto” e non aveva “Tradito emotività”. In appello la donna era poi stata ritenuta credibile, ma poiché non aveva sporto querela tempestivamente Raccuia era stato nuovamente prosciolto. In Cassazione il reato è stato ritenuto procedibile d’ufficio e ora dovrà tenersi un nuovo giudizio d’appello.
Le motivazioni del primo giudice del caso di Torino sembrano essere state riprese nella giornata di ieri da parte del fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo. La vicenda in questione riguarda suo figlio, Ciro Grillo, indagato per aver partecipato a una violenza sessuale di gruppo nella notte fra il 15 e il 16 luglio 2019, nella sua villa in Costa Smeralda. In questo caso, una delle vittime avrebbe sporto denuncia solo una volta tornata a Milano, circa dieci giorni dopo il fatto. Dopo alcune intercettazioni telefoniche, a metà aprile Ciro Grillo e i tre amici che erano con lui sono stati interrogati dalla procura, che dovrà decidere a breve se chiudere il caso o chiedere il rinvio a giudizio dei quattro.
In un video pubblicato il 19 aprile su Facebook Beppe Grillo ha negato la violenza in cui sarebbe coinvolto il figlio mettendo in dubbio il racconto della vittima perché “Se una persona viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf, e dopo 8 giorni fa una denuncia, è strano”. Al di là del fatto che Grillo non prende nemmeno in considerazione l’eventuale colpevolezza del figlio, forse non ha ben chiaro che i tempi e i modi giusti per denunciare uno stupro non li decide lui.
Per buona parte dell’opinione pubblica, la vittima di stupro può essere solo una. La Vera Vittima è colei che cammina sola, in una strada laterale, sfidando la libido maschile, possibilmente dopo il calare del sole. Improvvisamente aggredita da uno sconosciuto, magari straniero e che sicuramente nasconde grosse problematiche mentali (altrimenti la violenza non si spiega), Lei cerca di reagire in tutti i modi. La Vera Vittima è colei che nonostante calci, pugni e urla non riesce a fermare la violenza, che appena ne ha la possibilità corre in commissariato a sporgere querela, e che capiresti che ha subìto un trauma anche con un rapido sguardo all’espressione sul suo volto.
La realtà, però, è ben diversa, a partire dagli autori di stupro che, secondo l’Istat, nel 62% dei casi sono partner, nel 9.4% amici e nel 3.6% parenti delle vittime. In una relazione di conoscenza – quando non di fiducia – la percezione del fatto cambia nettamente. Quando la violenza sessuale si verifica all’interno dell’ambiente domestico, il 35% delle vittime ritiene l’episodio “Qualcosa che è semplicemente accaduto”, e lo stesso si verifica il 23% delle volte in cui l’autore di violenza non è il partner. Le percentuali salgono nei casi in cui l’evento, nonostante sia ritenuto qualcosa di “sbagliato”, non viene considerato sufficientemente grave da meritare una denuncia.
La consapevolezza di essere state vittime può sopraggiungere all’improvviso – ascoltando, per esempio, la testimonianza di donne che hanno subìto esperienze simili, o assistendo a una trasmissione televisiva che la rappresenta –, ma molto spesso impiega mesi, se non anni, prima di maturare. Lo stereotipo della Vera Vittima viene interiorizzato anche dalle vittime stesse e queste, confrontando la propria esperienza con quella che ritengono l’unico esempio di vittimizzazione possibile, nella maggior parte dei casi non possono che dedurre che quella che hanno subìto non è stata violenza, ma solo una parentesi spiacevole della loro giornata. Perché provare disagio? In fondo si tratta del partner o dell’amico che conosci da tempo, sei entrata tu in quella camera o, di nuovo, sei stata tu a bere quel drink di troppo.
Dall’altra parte, trattare lo stupro come un reato qualsiasi significa dimenticarsi che si tratta di una delle esperienze più traumatiche che una persona possa mai subire. Una delle reazioni che l’essere umano tende a manifestare, quando si confronta con un evento del genere, è proprio la sua negazione, fenomeno che gli studi definiscono “Riluttanza a rimanere in contatto con esperienze interne indesiderate, e compimento di sforzi per evitarlo”. Da qui, la rimozione del trauma. Affinché una persona recuperi un episodio che, per sopravvivere, ha dovuto relegare nei meandri del suo inconscio, non bastano otto giorni. Spesso, caro Grillo, nemmeno otto mesi.
Anche una volta realizzata la violenza, denunciare potrebbe portare ulteriore sofferenza – o almeno, questo è il messaggio che la società trasmette quotidianamente. La vittima dovrà gestire, da sola, un sistema che non la sostiene e un’opinione pubblica che la colpevolizza. Se l’autore di violenza si trova in una posizione gerarchicamente superiore alla sua, denunciare l’episodio potrebbe farle perdere il lavoro. Il victim blaming, o pregiudizio per cui la vittima se l’è necessariamente cercata, da un lato giustifica l’aggressore – che colpa potranno mai avere dei “”Ragazzi di diciannove anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano con il pisello, così, perché sono quattro coglioni“? –, dall’altro alimenta vergogna e sensi di colpa nella vittima. Ciò la spingerà a ritardare ancora la querela, quando non a rinunciarvi.
Se la rimozione del trauma a seguito di uno stupro è frequente, la perdita della propria capacità di reagire nei momenti in cui la violenza si sta consumando lo è altrettanto. Anni di ricerca hanno confermato che, analogamente agli animali, gli esseri umani esposti a minacce estreme tendono a ricadere in uno stato di inibizione motoria, involontaria e temporanea, noto come “immobilità tonica”. Rientrano nel fenomeno tremore, insensibilità al tatto, incapacità di rispondere agli stimoli esterni. Non è raro che, oltre a perdere il controllo del proprio corpo, la vittima perda quello della propria voce. Non credere alla parola di chi trova la forza di denunciare uno stupro perché “Non ha urlato” non è solo una scelta sessista, ma denota anche una netta mancanza di conoscenza dell’argomento. Fa capire che lo stereotipo della Vera Vittima è così solido da non lasciarsi scalfire né dall’evidenza popolare né da quella scientifica.
Victim blaming e negazione del trauma non comportano solo un ritardo nella denuncia ma possono favorire, nelle vittime, l’insorgenza di depressione o disturbo post-traumatico da stress. Ironicamente, nell’immaginario collettivo, questi disturbi vengono sistematicamente attribuiti alle vittime di violenza, rientrano nella narrazione mainstream di colei che è stata stuprata – sempre a patto che venga creduta, elemento non scontato viste, ad esempio, le dinamiche ripetutamente messe in scena da diverse fiction della Rai. La rigidità di queste aspettative impedisce però l’evoluzione di narrazioni alternative.
Ogni volta che un ottimista si illude che la situazione stia migliorando, accade qualcosa nel nostro Paese che lo fa ritornare con i piedi per terra. Può trattarsi di una sentenza, delle affermazioni di un esponente politico, o delle dichiarazioni degli esponenti politici che lo supportano. Anche il sistema della giustizia sembra ostacolare chi subisce uno stupro e questo effetto respingente riguarda non solo di chi applica la legge, ma la legge stessa.
Nonostante le recenti riforme, il Codice Rosso previsto dalla legge 69 del luglio 2019 concede alle vittime di violenza sessuale fino a dodici mesi per sporgere denuncia: ancora troppo pochi, perché la Vera Vittima non esiste, ma tutte le vittime hanno il diritto di denunciare, di essere ascoltate, assistite e, se attendibili, credute – anche quelle che necessitano di più tempo per realizzarlo. L’approfondimento dei fatti, in ogni caso, spetta alle indagini – fatte, si spera, senza pregiudizi di fondo a guidarle – e il loro accertamento ai processi. Di certo, non è compito di chi, come Beppe Grillo, abusa della propria notorietà per imporre la propria opinione, né al pubblico o ai telespettatori che la ascoltano. Tutte queste persone, che accusano le vittime di violenza di non essere credibili solo perché non rispettano il luogo comune radicato nel loro immaginario, non solo continuano a costringerle a rivivere l’accaduto, sottoponendole a un altro trauma, ma creano il clima sociale e culturale per cui eventi simili continuano ad accadere a decine ogni giorno.