Le narrative populiste riguardanti le migrazioni sembrano essere apparentemente colme di umanità solo quando si parla di rifugiati di guerra. Molto spesso nelle dichiarazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni traspare una faticosa accettazione di tutti quei migranti che sono scappati dai rispettivi Paesi a causa di conflitti armati in corso. Secondo queste prospettive, solo coloro “che hanno vissuto gli orrori della violenza” e che “hanno abbastanza soldi per comprare un biglietto aereo” possono avere il privilegio di rimanere vivi in Italia. Se tali dichiarazioni siano spinte da una ragionevole necessità di conservare un vago alone di dignità, oppure il risultato dell’incrocio dei dati di gradimento che Luca Morisi è incaricato di analizzare, non si sa. Quello che si sa per certo è che posizioni simili incarnano il più becero riduzionismo del nostro tempo. L’evidenza sostenuta dalle teorie dei conflitti, infatti, non solo suggerisce che la vera causa delle migrazioni sia legata alla degenerazione del sistema sociale dei vari Paesi di provenienza dei migranti, ma che anche le morti causate dai “problemi strutturali” sono infinitamente più numerose di quelle causate dalla violenza diretta.
Nel suo celebre articolo “Violence, Peace and Peace Research” del 1969, il sociologo e matematico norvegese Johan Galtung affianca alla presenza dei conflitti diretti quella dei cosiddetti conflitti strutturali, ovvero quegli episodi di violenza latente che derivano dalla differenza tra il potenziale di una popolazione e il reale stato di tale popolazione. A causare la sofferenza e la morte degli individui, quindi, non sono solo gruppi armati irregolari, eserciti corrotti o repressioni governative, ma anche e soprattutto l’inesistenza dei servizi di welfare e le fortissime disuguaglianze sociali. E poiché sono proprio le anomalie sistemiche a causarla, la violenza strutturale non è direttamente visibile.
Se si analizzano gli Human Development Reports delle Nazioni Unite, è facile concludere che la gravità del fenomeno dovrebbe preoccupare molto più dei conflitti diretti. Pensiamo alla popolazione della Nigeria, pari a 200 milioni di individui, con un’aspettativa di vita di 54 anni. Pensiamo poi a quelle di Regno Unito, Germania e Spagna, che insieme ammontano a 200 milioni di persone, e per le quali l’aspettativa di vita è di circa 82 anni. Dividendo lo stesso numero di persone per le due rispettive aspettative di vita, ci si accorge che in Nigeria, ogni anno, muoiono 1 milione e 300 mila persone in più, senza che nessuno le uccida o le torturi, ma solo perché il sistema socio-economico nigeriano non riesce a garantire loro un’adeguata assistenza per farle sopravvivere.
L’esempio precedente non è casuale. Una larga componente dei flussi migratori da cui è attraversata l’Europa è, infatti, costituita dai migranti nigeriani. Eppure, nell’analisi dei dati di tutti i Paesi di provenienza il discorso rimane lo stesso, così come rimane ostile l’atteggiamento di quelli di accoglienza. E in un eterno ritorno dell’uguale, milioni di giovani lasciano le proprie terre, che non possono offrire loro alcun futuro, per approdare in Paesi che li relegano al gradino più basso della società. Secondo i dati forniti dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, nel 2019 le rimesse a livello globale che i migranti hanno inviato alle proprie famiglie nei Paesi del Sud del mondo equivalgono a 550 miliardi di dollari. Tale cifra è il risultato dell’incrocio dei dati relativi a 200 milioni di persone, che hanno lasciato le loro case per trasferirsi e lavorare nei Paesi ricchi a ritmi allucinanti per salari che noi riterremmo irrisori. Questa somma equivale al 15% dei salari medi percepiti dagli immigrati regolari, e costituisce il triplo dei fondi annuali stanziati per la cooperazione internazionale. Anche solo il fatto che il restante 85% venga speso nei Paesi di accoglienza, e che quindi contribuisca allo sviluppo economico dell’occidente, sarebbe sufficiente a ridicolizzare qualsivoglia narrativa sovranista del migrante come “invasore” e “parassita”. Ma se ci si concentrasse sulla valenza reale di questi 550 miliardi di dollari che, come già detto, hanno un impatto tre volte superiore a tutti i progetti di cooperazione su scala globale, apparirebbe chiaro che “aiutarli a casa loro”, paradossalmente, vuol dire proprio “aiutarli a casa nostra”.
Eppure, la violenza strutturale che imperversa nel Sud del mondo non verrà risolta solo dall’accoglienza dei migranti e dalla regolarizzazione di un lavoro che offra dignità e che sia onestamente pagato. Eserciti di benpensanti ed economisti concordano sul fatto che la chiave di questo problema risieda nello sviluppo internazionale: leggendo, ad esempio, “Financial Development and Poverty Reduction in Developing Countries” di H. Jalilian e C. Kirkpatrick, si può rischiare di credere davvero che questa sia l’unica strategia possibile per risolvere le disuguaglianze sociali e in grado di offrire un futuro alle diverse popolazioni. Lo sviluppo qui va inteso come un processo rivestito di connotati principalmente occidentali, basato su indicatori totalmente estranei al tessuto sociale dei Paesi del Terzo Mondo, come la crescita economica. Ed è proprio da questo fondamentalismo della crescita che due dei maggiori finanziatori su scala globale, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, fanno derivare l’implementazione di progetti di sviluppo a lungo termine, a patto che lo stato beneficiario compia degli aggiustamenti strutturali che aprano l’economia locale al mercato mondiale capitalista. Tale approccio neoliberista è stato riproposto invariato in ogni continente. Se i Paesi beneficiari accettano di convertirsi alla fede nel rilancio degli investimenti, nell’accumulazione di capitale, nell’incremento dei consumi, e nelle privatizzazioni, allora, e solo allora, possono essere inondati di miliardi di dollari da destinare allo sviluppo. Molti dei sostenitori di questa strategia sventolano la bandiera del “trickle down effect”, ovvero quella condizione in cui un aumento vertiginoso del Pil provoca una ricaduta positiva sul benessere di tutta la popolazione. Se milioni di persone vivono in condizioni di povertà, tanto vale produrre di più e sperare che parte dei profitti entri anche nelle tasche dei più poveri. Quello che il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale troppo spesso omettono è che questo modus operandi ha creato disuguaglianze sociali insanabili in ogni Paese in cui è stato applicato. E con esse, ha aumentato anche la “violenza strutturale”. Dal punto di vista economico, lo sviluppo internazionale di stampo neoliberista in realtà non ha incrementato la ricchezza reale dei Paesi coinvolti: David Alan Craig e Doug Porter in “Development Beyond Neoliberalism?” dimostrano come le politiche di privatizzazione e di rilancio degli investimenti abbiano avuto il solo effetto di attirare decine di imprese transnazionali, che sono gli unici attori capaci di investire ingenti capitali. I ricavi ottenuti dall’estrazione mineraria in Congo, ad esempio, di certo hanno aumentato il Pil del Paese, ma non hanno scalfito in nessun modo il tasso di povertà della popolazione.
Analizzando il fenomeno da un punto di vista socioculturale, la situazione si fa ancora più grave. Infatti, il monoteismo dello sviluppo ha concentrato l’economia nelle capitali, spingendo le popolazioni rurali a spostarsi in città: questi “dannati della terra”, come li ha definiti Frantz Fanon nella sua celebre opera, sono finiti nelle bidonville, dominate da crimine e povertà. Questo perché, specialmente in Africa, come scrive il filosofo ed economista Serge Latouche, gli obiettivi della crescita economica sono andati di pari passo alla sostituzione dei valori locali con quelli occidentali del consumo, e con la creazione di nuovi bisogni indotti che però non hanno risolto i reali bisogni di base e che anzi hanno distrutto un sistema valoriale sostenibile. A causa di un’esposizione sistematica ai valori del Nord, le persone hanno iniziato a rigettare la saggezza delle credenze popolari insita nelle comunità, la quale non contempla in alcun modo la necessità di crescere, consumare, o produrre. In altre parole, lo sviluppo ha sostituito le diverse ontologie indigene fondate sulla solidarietà tra gli uomini e sulla mancanza di un confine tra uomo e natura con il mito occidentale di un futuro più abbondante (quando in realtà l’economia stessa si basa sul concetto di scarsità), incentrato sulla capacità del singolo individuo di produrre ricchezza. E quindi centinaia di migliaia di persone, si spostano dove il futuro sembra dar loro più dignità, frustrate per non poter raggiungere gli standard di benessere del Nord, privati dei loro valori culturali antichi e costretti a subire i danni di politiche di sviluppo predatorie, essi scelgono di partire, ma ad aspettarli alla fine del viaggio – se ci arrivano vivi – ci sono nella maggior parte dei casi condizioni di vita proibitive, discriminazione, e sfruttamento sistematizzato.
Il sistema capitalista, una volta inseritosi in questi Paesi, genera una sorta di vergogna collettiva legata a un’idea di inferiorità rispetto ai popoli ricchi, in modo tale che sono gli individui stessi, come ricorda il sociologo Franco Cassano ne Il pensiero meridiano, a screditare le loro tradizioni e a percepire le loro forme di organizzazione sociale come malfunzionanti. Rifiutando l’assetto redistributivo e comunitario delle ontologie indigene, gli individui abbracciano i modelli del consumismo occidentale, andando a indebolire ancora di più la loro forza sociale, che da profondamente coesa si frantuma nell’individualismo. In un orizzonte così disperante, l’unica opportunità che rimane a molti dei giovani dei Paesi del Terzo Mondo è quella di intraprendere questo pericolosissimo viaggio verso il Nord, la terra promessa del progresso economico.