Negli stessi giorni e a pochi chilometri di distanza dal luogo in cui si celebra il processo a Derek Chauvin, l’ex poliziotto ritenuto responsabile della morte di George Floyd, una nuova ondata di proteste si è levata negli Stati Uniti. L’11 aprile la polizia di Brooklyn Center, in Minnesota, ha ucciso un afroamericano di 20 anni durante un controllo stradale. La vittima, Daunte Wright, è stata fermata per una violazione del traffico e l’agente avrebbe sparato al giovane dopo aver scoperto che su di lui pendeva un mandato d’arresto per non essersi presentato in tribunale per un’udienza su due reati minori. Le forze dell’ordine del Minnesota hanno dichiarato che l’agente ha sparato a Wright per sbaglio, confondendo la pistola con il teaser.
Mentre in tutto lo stato ricominciavano le proteste del movimento Black Lives Matter, è arrivata la notizia di un’altra morte per mano della polizia, ancora più scioccante. La polizia di Chicago ha infatti diffuso il video degli ultimi istanti di vita di Adam Toledo, un ragazzo di origine ispanica di soli tredici anni, ucciso il 29 marzo scorso. Gli agenti sono arrivati nel quartiere di Little Village per una sparatoria e avrebbero sorpreso Adam, in compagnia di un altro bambino di 12 anni, con una pistola in mano. Il video, che proviene dalla body cam dell’agente che ha sparato il colpo, lo mostra mentre intima al ragazzo con le braccia alzate di gettare la pistola, anche se non è chiaro se effettivamente Adam ne avesse una.
È passato quasi un anno dalla morte di George Floyd, un uomo afroamericano di 46 anni ucciso il 25 maggio 2020 dopo essere stato trattenuto dalla polizia di Minneapolis. Dopo la diffusione del video della sua morte, in cui Chauvin preme per diversi minuti il ginocchio sul collo di Floyd che con un filo di voce ripete più volte: “Non riesco a respirare”, i quattro agenti coinvolti sono stati tutti arrestati. Chauvin sta attualmente affrontando un processo con l’accusa di omicidio, mentre per gli altri tre, tutti accusati di favoreggiamento, comincerà ad agosto.
La morte di George Floyd è arrivata in un momento complesso per la società americana. Le rivolte esplose a Minneapolis contro la polizia subito dopo l’accaduto erano state represse duramente con manganellate e lacrimogeni, e sono stati in molti a rimarcare la differenza nella risposta rispetto alle proteste contro il distanziamento sociale, guidate soprattutto da bianchi repubblicani: solo un paio di settimane prima dell’accaduto, alcuni manifestanti erano entrati indisturbati nel campidoglio del Michigan con fucili d’assalto e armi pesanti, con l’appoggio di Trump che li aveva definiti “bravissime persone”. La pandemia non ha fatto altro che inasprire le profonde disuguaglianze tra bianchi e neri: molti attivisti hanno denunciato la maggiore ostilità della polizia verso gli afroamericani che violano il lockdown (35 arrestati su 40 sono neri) e gli americani stessi si sentono in dovere di intervenire laddove la legge non arriva: nel febbraio del 2020 in Georgia, padre e figlio bianchi hanno ucciso Ahmaud Arbery, un ragazzo nero che stava facendo jogging nel loro vicinato, dopo averlo rincorso con un pick up. L’arresto dei due, che si sono giustificati dicendo di aver visto Arbery rubare in un appartamento, è arrivato soltanto 74 giorni dopo l’omicidio, soprattutto grazie al clamore suscitato dal video dell’uccisione diventato virale online.
“I can’t breathe” (“Non riesco a respirare”) è diventata la frase simbolo della lotta contro la brutalità e la violenza della polizia americana nei confronti della comunità afroamericana. Nel 2014, Eric Garner la pronunciò 11 volte mentre Daniel Pantaleo, un agente della New York City Police Department, lo soffocava con il suo corpo, dopo averlo fermato per la vendita di sigarette di contrabbando. La morte di Garner, assieme a quella del diciottenne Michael Brown, ucciso durante un controllo in auto, e all’assoluzione del poliziotto che nel 2012 sparò al diciassettenne Trayvon Martin hanno dato vita al movimento Black Lives Matter. Tutte le persone uccise erano disarmate. Daniel Pantaleo non è stato incriminato per l’omicidio di Garner, così come Darren Wilson per quello di Michael Brown.
Come spiegato da Hasan Minhaj in Patriot Act, il problema della brutalità della polizia non è individuale, ma sistemico: “Il problema non si riduce a qualche poliziotto cattivo. C’è un quadro giuridico e politico separato che ripara gli agenti dalle conseguenze, dà loro poteri speciali quando si difendono e spesso li addestra a temere le comunità che dovrebbero proteggere”. Uno dei problemi è infatti l’addestramento della polizia americana. Ai poliziotti viene insegnato ad agire ancora prima che la minaccia si manifesti, invece che a reagire: è il principio della “Stand-your-ground law”, la legge di autodifesa che solleva una persona dalla responsabilità penale nel caso agisca per ragioni di difesa personale. La legge è oggetto di dibattito perché, sebbene sia una sorta di legittima difesa, di fatto non prevede una dinamica aggressione-reazione, ma basta una minaccia percepita a giustificarne l’applicazione. Lo stesso accade per la polizia: basta che qualcuno costituisca potenzialmente una minaccia per legittimare una risposta, anche violenta, delle forze dell’ordine. Questo approccio viene chiamato “Fear-based training”, perché abitua gli agenti a temere costantemente per la propria vita. Nel 2019 la polizia di Minneapolis responsabile oggi della morte di George Floyd aveva sospeso gli addestramenti di questo tipo poiché “viola[no] le regole al cuore della sicurezza di comunità”, dal momento che considerano la sicurezza del poliziotto prioritaria rispetto a quella della comunità. Nel 2016, proprio un poliziotto di Minneapolis che aveva seguito uno di questi controversi training tenuti dal tenente Dave Grossman aveva ucciso un afroamericano a un posto di blocco, pochi secondi dopo che l’uomo gli aveva pacatamente detto di avere addosso una pistola. E la “Stand-your-ground law” solleva gli agenti dalle accuse di omicidio in casi come quello di Floyd: nel 99% dei casi, nessun poliziotto ha affrontato un processo per aver ucciso un sospettato.
Se questo aiuta a comprendere perché la polizia americana è così incline a usare la violenza, però non spiega perché le prime vittime di questa violenza, agita in prevalenza dai bianchi – che rappresentano il 77% delle forze di polizia – siano afroamericane. Secondo i dati di Mapping Police Violence, lo scorso anno 1099 persone sono morte per mano delle forze dell’ordine di cui il 24% neri, nonostante siano solo il 13% della popolazione americana. Gli afroamericani hanno infatti il triplo delle probabilità di essere uccisi dalla polizia rispetto ai bianchi, sebbene siano, in media, il gruppo etnico meno armato. Si tratta di mera profilazione razziale, che l’American Civil Liberties Union definisce “la pratica discriminatoria delle forze dell’ordine per prendere di mira individui sospetti di aver commesso un crimine sulla base della loro razza, etnia, religione o origine nazionale”. Se sei nero, insomma, sarai sempre considerato una persona sospetta anche se, come Ahmaud Arbery, stai solo facendo jogging. Nonostante spesso si cerchi di giustificare la profilazione razziale con la scusa che i neri commettano più crimini rispetto ai bianchi, è chiaro che si tratta di un problema di razzismo istituzionale.
E a distanza di un anno c’è ancora chi considera esagerate le proteste di Black Lives Matter, accusa il movimento di essere “razzista al contrario” e di fomentare odio contro la polizia. Ma, come disse Malcolm X in un famoso discorso del 1962, dopo che alcuni membri della moschea di Los Angeles furono attaccati e uccisi alle spalle dalla polizia locale, sono i bianchi ad aver istituzionalizzato e diffuso la cultura dell’odio. Queste morti sono solo le ultime di una lunga serie di persone nere disarmate uccise dalla polizia perché nere, perché quel “fear-based training” ha insegnato loro ad avere paura soprattutto nella nerezza e della presunta minaccia che rappresenta di fronte ai bianchi. Pretendere che questa comunità che si vede di continuo strappare vittime innocenti – perché al di là del crimine commesso, nessuna persona merita di essere uccisa in assenza di un pericolo reale – risponda in modo accomodante o porgendo l’altra guancia, è l’ennesima richiesta di uno sguardo bianco che si rifiuta di assumere le proprie responsabilità. “Essere nel margine”, scrive l’autrice femminista bell hooks in Elogio del margine, “significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale […]”, sapendo di non potervi mai stare al centro. bell hooks considera la marginalità “un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza”. Essere nel margine però non deve essere una condanna a morte, men che meno nel Paese che si fregia di essere la più antica democrazia del mondo.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 28 maggio 2020 ed è stato aggiornato il 16 aprile 2021.