A inizio gennaio si è diffusa la notizia che, per la prima volta nella storia, la polizia britannica stesse indagando su una violenza sessuale di gruppo avvenuta nel metaverso. A denunciarla è stata una ragazza minore di 16 anni che stava giocando con il suo visore a un videogioco immersivo non meglio indicato, e che sarebbe stata accerchiata e attaccata in una room da una serie di avatar maschili, presumibilmente adulti. Gli organi di polizia, che hanno fatto trapelare la notizia dell’indagine, non hanno fornito ulteriori elementi per questioni di tutela della minore. Un loro portavoce, però, ha dichiarato in esclusiva al Daily Mail che “la ragazza ha avuto un trauma psicologico assimilabile a quello di uno stupro fisico” e che “l’impatto emotivo e psicologico è più duraturo delle ferite corporee”.
Con questa unica fonte diretta e le poche informazioni disponibili, farsi un’idea chiara del caso dall’esterno è complesso. Ma a rendere interessante un approfondimento è sicuramente la novità dell’argomento – un’indagine storica – e il modo assurdo in cui la notizia, riportata in maniera sommaria da molte testate, è stata accolta. La reazione dell’internet è stata infatti molto polarizzata, in un quadro che sembra reiterare la tendenza a non credere alle vittime di violenza sessuale. Sui social italiani, infatti, a schierarsi a favore della ragazza è stata una parte minoritaria. La maggior parte dei commentatori ha dichiarato in maniera più o meno colorita il proprio scetticismo. Tra questi si riscontrano principalmente due correnti: chi ha detto la sua con un frettoloso “poteva togliersi il visore” o un più spiritoso “allora denuncerò chi mi ha ucciso in Call of Duty”; e chi sostiene semplicemente l’impossibilità concreta di una violenza sessuale in un gioco VR.
Lavorando a questo articolo mi sono imbattuta in alcuni post e commenti che tentavano di fare debunking, anche in maniera articolata, di quella che era stata definita come una fake news. Scritti da persone apparentemente addentro alla realtà virtuale e al gaming, i post deridevano chi era caduto nella “trappola” della notizia, moltiplicata dall’inaccettabile ignoranza dei giornalisti. Le argomentazioni, che negavano la possibilità della violenza, erano legate alla mancanza di attributi sessuali all’interno del gioco e alle “movenze limitate” degli avatar, impossibilitati a “stendere a terra” gli altri avatar o anche solo a “palpeggiarli”. Un altro fattore da considerare, scrivevano, era l’età della vittima. In UK e in Europa, per tutela dei minori, la maggior parte delle piattaforme del metaverso (tranne Roblox) consente l’accesso solo ai maggiorenni. Il motivo di questo limite è, appunto, evitare situazioni sgradevoli nell’interazione con adulti sconosciuti. Se quindi c’era stata una molestia, secondo alcuni, parte della colpa doveva essere imputata anche alla ragazza e ai suoi genitori.
Su una cosa questi commenti avevano ragione: gran parte dei giornalisti che avevano rimbalzato la notizia, molto probabilmente, non avevano mai messo piede nel metaverso. Ma ciò non la caratterizza come una fake news anche perché l’argomento, purtroppo, non è poi così nuovo. Dopo aver letto decine di quei commenti, la mente mi ha riportata a un articolo della MIT Technology Review, non esattamente il giornalino del ginnasio: “The metaverse has a groping problem already” (“Il metaverso ha già un problema di ‘palpatine”’). Si trattava di un pezzo del dicembre 2021 che riportava il caso di una beta tester di Horizon Worlds, il videogioco immersivo di Meta, che diceva di essere stata palpeggiata da un estraneo. “La molestia sessuale non è uno scherzo su internet in generale, ma essere nella realtà virtuale aggiunge un altro layer che rende l’evento ancora più intenso,” ha scritto la donna in un post, continuando: “Non solo sono stata palpeggiata, ma c’erano altri giocatori che hanno supportato questo comportamento e mi hanno fatta sentire isolata”. In questo caso la fonte della notizia è senz’altro autorevole – con tutto il rispetto per il Daily Mail – e non c’è alcuna ragione di cadere nell’orrida rete del victim blaming. Anzi, la testimonianza dimostra che i problemi di molestie, almeno nel caso di Meta, sono precedenti al lancio stesso del prodotto, e soprattutto che il mondo virtuale è lo specchio perfetto di quello fisico con la differenza che, se aggredisci qualcuno, non devi metterci la faccia.
“Anche nella goffaggine dei movimenti virtuali può esserci l’intento di prendere di mira una persona, di contrastarla o assalirla, magari in gruppo. Può essere spaventoso o fastidioso essere aggrediti dai personaggi non giocanti, figurati quando sai che dietro gli avatar ci sono persone reali,” mi ha spiegato Giulia Trincardi, docente di Culture digitali alla Naba, che si era occupata di un caso simile in tempi non sospetti. A rendere l’esperienza VR potenzialmente traumatica c’è anche un elemento che spesso non viene considerato: l’audio. “Se hai l’audio puoi sentire la prossimità fisica degli altri, banalmente persone che ansimano o che ti dicono cose fuori contesto. Sai, molte giocatrici preferiscono non parlare nel microfono per non essere riconosciute come donne, appunto per non incorrere in eventi spiacevoli. In questi spazi la violenza è sempre molto genderizzata,” ha continuato Trincardi.
Nel caso specifico della minorenne britannica, c’è sicuramente una vulnerabilità data dall’età. “Esistono molti studi sul potere immersivo della realtà virtuale, che per gli adolescenti può essere usata ampiamente in senso positivo, per esempio con scopo terapeutico. Per le stesse ragioni, un’esperienza traumatica in un questo contesto non va sottovalutata,” ha aggiunto Trincardi. Anche perché la distinzione tra piano fisico e piano virtuale può essere più complessa per una mente giovane. “Se ci pensi, a differenza nostra, loro sono nati in un mondo in cui il digitale era già parte della vita quotidiana,” ha concluso. A questo punto, ricostruire le modalità in cui la violenza può essere avvenuta è un triste gioco da lasciare alla fantasia. Anche perché gli elementi per pensare che qualcosa di traumatico possa essere successo a una ragazza (minorenne) nel bel mezzo di un gioco immersivo ci sono tutti.
Fare chiarezza sul caso è rilevante anche per un altro motivo: il numero di ragazzi che sono o saranno coinvolti nel metaverso è enorme. Secondo una ricerca di IET pubblicata nel 2022, la prossima generazione di bambini nel corso di tutta la vita spenderà circa 10 anni nella realtà virtuale. Attualmente, il 21% della fascia tra i 5 e i 10 anni ha già un visore o ne ha chiesto uno in regalo, mentre il 62% dei genitori non ha idea di come il metaverso funzioni. Questa impotenza nell’aiutare i ragazzi a muovere i primi passi online, anche banalmente nella navigazione, mi è stata confermata da Ivano Zoppi di Fondazione Carolina, che da anni si occupa di lotta al cyberbullismo e tutela dei minori. “In Italia manca la consapevolezza che la prevenzione degli abusi online è un tema di salute, sia da parte delle istituzioni che di genitori ed educatori. Bisognerebbe diffondere una cultura della prevenzione, perché purtroppo di questi casi, dal 2020 in poi, c’è stato un aumento considerevole,” mi ha detto.
Mentre le segnalazioni di crimini nella realtà virtuale, sessuali e non, aumentano dappertutto anche a detta di autorità e associazioni, cresce la frustrazione per la mancanza di una legislazione adeguata. Il portavoce della polizia britannica, intervistato dal Daily Mail, aveva parlato del caso in termini di nuova sfida per le autorità, perché il reato di stupro, stando al codice penale, è subordinato a un contatto fisico. E anche in Italia a livello giuridico siamo lontani anni luce dal regolamentare il metaverso. La cosiddetta legge 71, che dovrebbe proteggere i minori online, ne precede la nascita di diversi anni. La norma, approvata nel 2017, regolamenta principalmente i casi di cyberbullismo, definito come “qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, […] in danno di minorenni realizzata per via telematica”. Non è chiaro, però, quanto una norma del genere possa essere applicata a un eventuale caso di violenza sessuale nel contesto VR.
Non da ultimo, c’è da capire quale sia la responsabilità delle piattaforme che, di fatto, guadagnano sulla presenza dei giocatori. Nel 2021 Meta, in risposta alle denunce della beta tester molestata – il cui compito, appunto, era rilevare le criticità della piattaforma – aveva detto che la donna avrebbe dovuto usare “Safe Zone”, il tool per la sicurezza fornito dal gioco che inserisce il giocatore in una specie di bolla, dove non può più essere avvicinato. Contestualmente, aveva definito l’incidente “assolutamente sfortunato” e aveva rinnovato l’impegno a rendere Horizon Worlds “un luogo di esperienze positive”. Questa narrativa fatta solo di spensieratezza e “gioco” legata alla dimensione virtuale del metaverso stona con la realtà dei fatti, almeno per una parte degli utenti. C’è infatti senz’altro bisogno di più trasparenza da parte delle piattaforme riguardo al numero di aggressioni che avvengono giornalmente. E se il punto della realtà virtuale è offrire un’esperienza il più possibile vicina a quella del quotidiano, la speranza è che ciò non valga anche per certi pattern di discriminazione e sessualizzazione.
Capire se si tratti effettivamente di uno stupro o di un altro reato di natura sessuale sarà compito della magistratura, ma stabilire a priori che la denuncia sia infondata significa non valutare una serie di fatti. Colpevolizzare la vittima per essersi (forse) trovata dove non avrebbe dovuto per via dell’età ricorda un po’ l’antica questione della minigonna e del “non fare tardi la sera”. Se un limite di età per certi giochi esiste c’è un motivo, certo, ma niente dovrebbe giustificare una violenza. E soprattutto, è necessario sottolineare la gravità del fatto che attualmente sia possibile, nascondendosi dietro un avatar, aggredire un’altra persona uscendone impuniti. Il bisogno di regolamentare questi spazi virtuali – sia in termini di garanzie dei minori, sia di previsioni ad hoc che sanzionino gli abusi – è urgente. E se si vuole ottenere l’attenzione del legislatore, in democrazia, bisogna innanzitutto che i cittadini siano in grado di rilevare delle criticità nel vissuto proprio e altrui, confrontandosi e facendo valere le proprie ragioni. Probabilmente tra qualche anno, così com’è accaduto per la legge contro il cyberbullismo, un gruppo numericamente rilevante di gamer, genitori, educatori e associazioni riuscirà ad ottenere una qualche tutela per minori e soggetti sessualizzati nel metaverso – ammesso che arrivi un governo abbastanza ricettivo. Ma non sarebbe male se anche altri membri della società, abituati a sentirsi al sicuro dappertutto e che gridano facilmente alla fake news, facessero appello alla loro empatia per incoraggiare alla tutela dei più vulnerabili. Perché se il dibattito continua a essere di questo tenore, la strada da fare è ancora lunga.