Nei primi decenni del secondo dopoguerra, con l’avvento delle politiche neoliberiste, gli Stati Uniti andarono incontro a un boom economico senza precedenti. La nazionalizzazione dei settori terziario e industriale aveva fatto improvvisamente decollare la qualità di vita della classe media, complice l’innalzamento dei salari e un progresso tecnologico che nell’arco di una ventina d’anni avrebbe permesso l’allunaggio. Ciò nonostante, nella prima metà degli anni Sessanta, circa un quinto della popolazione statunitense viveva al di sotto della soglia di povertà. Nello stesso periodo in cui la borghesia trascorreva il tempo libero alla ricerca di automobili ed elettrodomestici di ultima generazione, la comunità afroamericana ancora rivendicava i più basilari diritti civili. Soprattutto negli Stati del Sud la segregazione era un sistema definito dalla consuetudine e dalle leggi locali, ostacolando l’accesso al lavoro e all’istruzione delle persone afrodiscendenti. Queste, di conseguenza, vivevano ammassate in quartieri fatiscenti in cui la frustrazione cresceva parallelamente al divario economico fra la classe povera e quella benestante.
Nel 1965, con il rapporto federale The Negro Family: The Case for National Action, il sociologo e senatore democratico Daniel P. Moynihan spiegò l’origine di tali disuguaglianze individuando nel “Deterioramento della famiglia nera” la causa degli elevati tassi di disoccupazione e di criminalità che caratterizzavano le classi svantaggiate. Secondo l’autore, il 25% dei bambini che abitavano nei quartieri poveri era nato al di fuori del matrimonio, e l’instabilità dettata da questo modello di struttura familiare era ciò che impediva ai “non bianchi” il raggiungimento del successo economico, politico e sociale. In altre parole, la mancata adesione al modello di famiglia tradizionale rappresentava la “Fonte fondamentale di debolezza della comunità nera”. Tale sentimento di precarietà definiva la cosiddetta “cultura del ghetto” o, citando lo psicologo Kenneth Clark, del “ghetto nero” (dark ghetto), caratterizzata da desolazione, sfiducia nel futuro e comportamenti autodistruttivi.
La risposta alla tesi del sociologo diede il via a un’accesa discussione. Nel 1971 William Ryan, professore di psicologia a Boston, con la sua opera Blaming the victim affermò che il principio per cui ognuno cresce nella condizione economica che si merita non era altro che una strategia con cui la classe borghese legittimava il proprio privilegio. Definì victim blaming (colpevolizzazione della vittima) l’atteggiamento con cui la parte benestante della popolazione aveva imparato a “Giustificare la disuguaglianza trovando difetti nelle vittime stesse della disuguaglianza”. La prevalenza, fra le classi povere, di famiglie con tanti figli, padri assenti o madri single, un’incidenza di mortalità infantile terribilmente alta, case fatiscenti e scarsa qualità dell’istruzione, era effettivamente correlata ad alti tassi di disoccupazione e delinquenza; tuttavia, la causa della povertà era da individuarsi in una società strutturalmente fondata su tali disuguaglianze e non nei modelli culturali tramandati tra le classi povere.
Ryan identificò nel victim blaming una vera e propria “scorciatoia” elaborata dalla mente per semplificare un fenomeno – quello delle disuguaglianze sociali – di difficile comprensione. Sopravvalutare il ruolo della vittima e sottovalutare la complessità del contesto, come spiegò lo psicologo, illude le persone che sia sufficiente rispettare un sistema di regole precostituito per non rischiare di incorrere in circostanze spiacevoli. La vittima non può essere innocente, perché la sua irreprensibilità non sarebbe compatibile con il male che le è capitato; al contrario, se questa ha violato la norma il danno era inevitabile, poiché legato al suo comportamento da un semplice rapporto di causa – effetto. Pensare che comportarsi diversamente da chi ha subito un torto sarà sufficiente per evitarlo rende gli eventi prevedibili, allontana il disagio legato all’incertezza e placa l’angoscia che emergerebbe dalla consapevolezza che il male, contrariamente al privilegio, è democratico.
Oggi, la tendenza a colpevolizzare le vittime viene spiegata dalla “Teoria del mondo giusto” (Just World Belief, JWB), secondo cui alcune persone agiscono guidate dalla convinzione che ognuno “Ottiene ciò che merita e si merita ciò che ottiene”. Per chi aderisce alla teoria del mondo giusto gli eventi non sono casuali, ma ognuno ha il potere di determinare il proprio destino decidendo di intraprendere una strada piuttosto che un’altra e assumendosene le relative conseguenze. Si tratta di una scelta forzata, in cui il “giusto” coincide con il rispetto delle aspettative sociali, mentre qualsiasi comportamento o decisione non conforme alla regola è meritevole di punizione. Ma poco importa: se ogni condizione nasce come conseguenza di un’azione libera e autodeterminata, la società non ha il potere di intervenire e la collettività ne esce automaticamente deresponsabilizzata. Si rinforza così uno stallo sociale in cui le categorie privilegiate possono godere dei benefici di cui dispongono perché “se li sono meritati”, mentre i gruppi discriminati sono destinati a subire le ingiustizie che li opprimono perché, in fondo, avrebbero dovuto agire prima per evitarle.
Si tratta di un meccanismo di difesa estremamente individualistico, in linea con la valorizzazione del successo a tutti i costi e di una filosofia per cui anche ledere la libertà altrui è accettabile, se utile a mantenere la propria posizione di potere. Il fatto che le scelte possibili siano sempre due – giusta o sbagliata, conforme o diversa dalla norma – rispecchia la polarizzazione di una società che incoraggia la differenziazione piuttosto che l’inclusione, e in cui l’opinione pubblica e i contrasti politici ed economici sono sempre più netti ed estremizzati. L’incapacità di cogliere e apprezzare la complessità del mondo reale può indurre gli individui a operare semplificazioni dannose: così, nella loro realtà percepita, far ricadere la responsabilità dei problemi su un unico capro espiatorio è funzionale per legittimare lo status quo e mettere a tacere eventuali dubbi. Il victim blaming rientra fra queste strategie.
L’aumento dei casi di violenza di genere degli ultimi anni ha rappresentato per il victim blaming un fertile terreno su cui proliferare, conciliando in un unico atteggiamento il bisogno individuale di mantenere intatta la propria rappresentazione del “mondo giusto” e il sessismo che nel 2021 ancora promuove abusi e molestie in modo più o meno esplicito. Il fatto che nelle dinamiche violente all’uomo spetti sistematicamente la componente aggressiva e alla donna quella passiva riflette la definizione di ruoli di matrice patriarcale ormai radicata nel nostro sistema sociale. Il victim blaming non si limita quindi a rendere la violenza accettabile agli occhi di chi vi assiste, ma contribuisce ad alimentare una cultura che giustifica e supporta le dinamiche che la favoriscono. Le classiche disquisizioni mediatiche sull’abbigliamento, il comportamento o il livello di alcol nel sangue delle vittime sono rassicuranti perché, in fondo, se sei incappata in dinamiche di abuso è perché non hai rispettato le regole. Nel frattempo rinforzano, nella categoria dominante, l’implicita consapevolezza che se la società ha normalizzato tale privilegio allora si ha il diritto di esercitarlo a oltranza.
Sottoporre le vittime di violenza a una gogna che sistematicamente le costringe a giustificare la loro condizione di vittime – invece di individuare nel comportamento dell’aggressore l’origine del problema – è inaccettabile, ma farlo pubblicamente è disgustoso. Fra gli esempi più recenti di gogna televisiva va citato il programma di La7 Non è l’arena, che con cadenza settimanale propone una sempre più imbarazzante discussione sulla vicenda su Alberto Genovese e quanto accaduto sulla Terrazza Sentimento il 10 ottobre scorso. Della trasmissione di Massimo Giletti colpisce non solo il fatto che il conduttore non intervenga quando la “prestazione” del “dottor” Genovese viene ridotta dagli ospiti a una banale “esagerazione”, ma anche la quantità di tempo riservata al contradditorio fra i difensori dell’aggressore e quelli delle vittime. Un simile dibattito non ha ragione di esistere, almeno non sotto forma di spettacolo televisivo, perché invece di condannare il carnefice suggerisce ai telespettatori che tutti i protagonisti della vicenda abbiano una parte di responsabilità, vittime comprese.
È colpa dell’indolenza dei poveri se sono poveri, degli atteggiamenti provocatori delle donne se vengono stuprate, della mancanza di iniziativa degli afroamericani se questi faticano ad accedere alle stesse opportunità dei bianchi. Il victim blaming colpisce trasversalmente le categorie oppresse, mentre chi detiene il privilegio lo esercita indisturbato e ai danni di chi non ha voce per difendersi. Squilibri di potere così strutturali sono difficili da eradicare, soprattutto perché mettere in discussione le proprie convinzioni sulla prevedibilità del mondo porterebbe alla presa di consapevolezza del fatto che la somma dei comportamenti di ognuno, in un sistema sociale, è determinante per rafforzare o, al contrario, negare i diritti altrui. Analizzare la complessità richiede uno sforzo cognitivo spesso impegnativo, ma ostinarsi a giustificare chi commette violenza significa diventare complici delle ingiustizie che mettono a rischio l’anima stessa dell’ideale democratico.