L’Italia è un Paese di disuguaglianze non solo perché spesso vengono usati due pesi e due misure nei confronti di diversi gruppi sociali, come stanno imparando gli immigrati sulla propria pelle, ma anche perché la ricchezza è mal distribuita. Non si tratta solo del divario fra Nord e Sud, una questione già di per sé problematica. C’è un’altra divisione economica che attraversa la penisola e non fa distinzione di accenti o cultura: quella su base anagrafica. Che i giovani affacciatisi da poco sul mondo del lavoro guadagnino meno di lavoratori con anni di esperienza alle spalle è cosa normale. Non possiamo definire normale, però, una situazione in cui questo divario si fa cronico, acuendosi e scavando una divisione sempre più profonda fra i più giovani e i più anziani, di una possibile guerra generazionale.
Secondo una recente ricerca, elaborata dall’università di Bologna seguendo i dati della Banca d’Italia, nel nostro Paese sono i sessantenni a detenere gran parte del reddito nazionale. Le statistiche ci dicono che i nati dopo il 1986 fanno parte della generazione che ha il reddito pro capite più basso, meno di 30mila euro annui. Segue la generazione nata fra 1966 e 1985, con circa 40mila euro l’anno di media. Le fasce di reddito più alto sono anche le più vecchie, i nati prima del 1945 e soprattutto i nati fra il 1946 e il 1965, compresi i baby boomers, che sono la fascia anagrafica più ricca della popolazione. Il dato sulla ricchezza giovanile è preoccupante, ma a essere allarmante è anche la media del reddito pro capite della fascia dei quarantenni: diecimila euro in meno di quanto disponessero i baby boomers alla loro età. Per l’autore della ricerca, il professor Marco Albertini, possibili spiegazioni possono essere trovate nell’effetto distruttivo della crisi economica sulle finanze italiane. Un altro fattore dipende dalla dinamica di crescita tardiva della generazione dei quarantenni: “La mancata crescita della ricchezza attorno ai quarant’anni della ‘generazione dimenticata’ dipende dal fatto che sono usciti più tardi di casa rispetto alla generazione fortunata 1946-65. Quello che stiamo osservando è uno scivolamento in avanti, ovvero un posticipo della stessa dinamica di crescita”, spiega il professore.
Ma se la generazione dei quarantenni subisce dunque un rallentamento nel proprio percorso di indipendenza economica, e ancor di più lo subiscono i nati negli anni Ottanta e Novanta. È normale che in una situazione del genere sia la fascia più anziana a prosperare, non solo in quanto a reddito, ma anche a livello demografico. Che l’Italia sia un Paese per vecchi non è più uno stereotipo. L’Istituto Carlo Cattaneo, analizzando i dati dell’Istat, ha rilevato che, per la prima volta dal 1861, gli over sessanta hanno superato gli under trenta. L’Istat ci dice anche che la popolazione italiana ha un’età media di 45 anni, solo il 13% dei cittadini ha meno di 15 anni, il 22% ha invece più di 65 anni. Prendendo in considerazione gli ultimi 27 anni, dal 1991 ad oggi, i “giovani” sono diminuiti di 11,2 punti mentre gli “anziani” sono cresciuti del 7,6%. Il gap è destinato a crescere, perché siamo un Paese in cui il tasso di natalità è vicino allo zero.
Il ritardo economico si riflette sul piano sociale in due modi: modificando lo stile di vita della nuove generazioni, e influendo sui valori e sulle ambizioni dei più giovani. Al giorno d’oggi i ventenni ritardano il momento di ingresso nel mercato del lavoro, magari parcheggiandosi all’università per anni, e sono restii ad abbandonare il nucleo familiare. I trentenni, generalmente alle prime esperienze lavorative, non hanno una stabilità tale da poter pensare di creare una propria famiglia: ovvero andare a vivere da soli e avere una propria casa, pianificare di avere un figlio. Il ristagno economico è uno dei principali fattori del basso tasso di natalità: le giovani coppie non fanno un figlio perché “non se lo possono permettere”, e la popolazione invecchia senza ricambio generazionale, un circolo vizioso di cui è difficile invertire la dinamica nel breve periodo. A poco servono le bizzarre misure paventate dal governo gialloverde, come quella di dare un pezzo di terra alle famiglie con tre figli. Per risolvere un problema demografico bisognerebbe innanzitutto individuare le criticità che l’hanno prodotto, e andare a intervenire sul piano economico.
I trentenni e i ventenni di oggi riflettono l’impoverimento generale del Paese. In diciassette anni il salario medio dei francesi è aumentato di seimila euro l’anno, quello dei tedeschi di cinquemila. Il paragone con la Penisola è impietoso: il salario degli italiani è aumentato mediamente di 400 euro l’anno, circa 32 euro spalmate su 13 mensilità. Il gap fra più ricchi e più poveri ci restituisce la fotografia di un Paese in cui la classe media, che è sempre stato il motore dell’economia, si sta estinguendo, inghiottita dal baratro del precariato cronico. Se guardiamo a un’altra ricerca del 2017, possiamo notare che il 10% più ricco della popolazione detiene un quarto della ricchezza italiana. Gli strati più poveri sono costretti a spartirsi le briciole. Se i quarantenni di oggi fanno fatica a raggiungere un reddito soddisfacente, per i ventenni – che in gran parte formeranno la classe media di domani – la situazione si fa allarmante. Il ritardo nell’ingresso del mondo del lavoro è un fattore che fa abbassare la futura pensione, allo stesso modo il moltiplicarsi della sottoccupazione e dei contratti part-time, che portano una contribuzione a singhiozzo. Si stima che un giovane che inizia a lavorare a 29 anni, si troverà – dopo 38 anni di contributi – con una pensione corrispondente al 69,7% dello stipendio, quindici punti in meno rispetto ai suoi genitori.
Per Walter Siti, autore di Pagare o non pagare, un pamphlet sulla natura del denaro, il ritardo economico delle nuove generazione si riflette sul piano cognitivo. I giovani d’oggi faticano ad affermarsi socialmente perché, consapevolmente o meno, girano a vuoto in una società in cui sembra impossibile migliorare la propria condizione economica. “La dignità che è indispensabile per un uomo in formazione”, scrive Siti, “si cerca altrove che nel lavoro; la catena socialmente consapevole che cinquant’anni fa appariva infrangibile, lavorare-essere pagati-pagare-comprare, è evaporata in una nebbia di delusioni e speranze in cui sembra che il denaro abbia perso la propria funzione di perno, in quanto collegato al lavoro”.
È in atto una dinamica di “infantilizzazione” del Paese. I più giovani si vedono senza prospettive, non padroni del proprio futuro. In poche parole sono impossibilitati a maturare. Allora attuano un meccanismo di difesa inconscio: stazionano nel limbo mentale dell’adolescenza. Per questo rispondono agli stimoli con reazioni “infantili”. Appare infantile il narcisismo protratto dei venti-trentenni, ossessionati dalla rappresentazione del sé in ogni ambito: quello dei social, quello lavorativo, persino quello privato in cui la stabilità emotiva non è più una priorità. Appare infantile la fede quasi religiosa che i quaranta-cinquantenni ripongono nei leader populisti: ogni dichiarazione di Salvini o Di Maio è applaudita, ogni promessa di governo è salutata come la soluzione a tutti i mali della Penisola, senza che vi sia alcuna base per affermarlo; una reazione infantile appunto, come quando da piccoli si ringrazia Babbo Natale per i regali ricevuti. Appare infantile persino la pretesa dei sessantenni di essere l’unica generazione che si è data da fare, addossando tutte le colpe del Paese a chi è venuto dopo di loro, reo di essere un fannullone o di “non rimboccarsi le maniche”.
Così ogni generazione si illude di avere la verità in tasca e la frattura da economica si fa sociale. Per tenere insieme il Paese allora occorre un nemico comune, il livore si indirizza verso le fasce di popolazione meno tutelate, come gli immigrati, responsabili di “rubare il lavoro”. Mentre una parte del governo, quella leghista, si preoccupa di agitare lo spauracchio dell’immigrazione, l’altra, la componente grillina, si lancia in improbabili ricette salvifiche, come il reddito di cittadinanza. Ma individuare una platea di 5-6 milioni di poveri da aiutare con poche centinaia di euro al mese non basterà ad appianare disuguaglianze ben più radicate. L’impoverimento italiano è un processo che interessa settori più ampi e centrali della popolazione: i giovani, la classe media, e i futuri lavoratori. I sessantenni italiani non possono – e non devono – farsi carico del sostentamento di tutto il Paese. Il Censis ci avvisa che, di questo passo, fra Neet e giovani che lavorano a tempo determinato, entro il 2050 quasi 6 milioni di cittadini potrebbero ritrovarsi in condizione di povertà. Ma allora non ci sarà più una generazione prosperosa a fare da salvagente per i propri nipoti, e nemmeno uffici di collocamento in grado di accogliere tutti.