I giovani di oggi sono sotto la lente d’ingrandimento delle vecchie generazioni. Schiere di sessantenni pretendono di spiegare ai ragazzi come manifestare, perché farlo, contro chi combattere, come progettare un futuro che a loro non appartiene. Li giudicano, li sbeffeggiano come se avessero a che fare con creature inferiori perché non hanno fatto il Sessantotto, non hanno attraversato gli anni di piombo e non hanno mai usato un telefono a gettoni. È bizzarro che questa retorica tronfia provenga proprio da quelle generazioni che hanno consegnato ai figli e ai nipoti un mondo allo sbando e che, semplicemente, hanno fallito.
In seguito alle manifestazioni del Fridays for Future, che hanno portato nelle piazze migliaia di giovani in Italia e altri milioni di coetanei in tutto il mondo, l’argomento della salvaguardia dell’ambiente è stato volutamente messo in secondo piano da chi cercava un pretesto per criticare i manifestanti. Il riferimento non è soltanto ai vecchi tromboni che chiamano “gretini” dei ragazzi che lottano per il loro futuro, ma a quelli che ripudiano l’odio della destra e l’esercito dei Feltri e dei Belpietro e sono riusciti ugualmente ad aggiungere una postilla stonata ai loro commenti. “Bravi questi ragazzi, ma…” è diventato il ritornello di chi probabilmente non ha ancora accettato la fine della giovinezza, di quei sogni da piazza che si sono trasformati in imborghesimento da salotto.
Massimo Gramellini è riuscito nell’impresa di associare la comunicazione di Greta a quella di Salvini: “Attenta all’effetto Papeete, Greta. Basta un attimo. Basta sentirsi al centro dell’universo e circondarsi di laudatori adoranti per rendere il contatto con la realtà e ritrovarsi, al risveglio, in minoranza persino con se stessi”. Massimo Cacciari, di solito lucido e proiettato verso il futuro, ha detto che i giovani stanno affrontando il problema ambientale in modo “ideologico-sentimental-patetico”, e che “non è così che si formano le coscienze critiche”. Sei milioni di ragazzi in tutto il mondo hanno dimostrato di tenere al proprio futuro proprio attraverso lo sviluppo della loro coscienza critica, e forse di ideologico e patetico c’è solo il tentativo delle vecchie generazioni di indirizzare dei movimenti che stanno provando a mettere delle pezze alle voragini causate dai padri.
La fase finale della carriera di Giorgio Gaber è stata incentrata sulla disillusione, sulla società vista con gli occhi di chi ha combattuto e poi si è accorto di non aver vinto. La canzone del 2001 La razza in estinzione racchiude questi pensieri nei versi: “La mia generazione ha visto migliaia di ragazzi pronti a tutto che stavano cercando, magari con un po’ di presunzione, di cambiare il mondo. Possiamo raccontarlo ai figli senza alcun rimorso, ma la mia generazione ha perso”. La congiuntura storica era effettivamente a loro favore: il secondo dopoguerra e la nascita della Repubblica hanno rappresentato il viatico per quel boom economico che ha trasformato l’Italia e gli italiani. Se adesso parlare di posto fisso è un’utopia, all’epoca era la norma. Sistemarsi, metter su famiglia, trovare un lavoro a vita e poi godersi la sacrosanta pensione. Pensione che, a partire dalla metà degli anni Settanta, è stata concessa dai vari governi in modo troppo allegro, a discapito delle casse dello Stato. Far schizzare il debito pubblico per finanziare le pensioni non è stata una buona idea, soprattutto perché i giovani adesso pagano i fallimenti economici altrui, per un vero e proprio furto generazionale.
Il conflitto generazionale però non riguarda soltanto la sfera economica, la distruzione dell’ascensore sociale e il crollo di tutte le fondamenta nel mondo del lavoro. I debiti finanziari vengono quasi offuscati dai debiti morali che i ragazzi di oggi hanno trovato in eredità. Il Sessantotto, pur mantenendo un’importanza storica e sociale di rilievo, è stato fondamentalmente un gioco della borghesia. Pasolini scriveva ai manifestanti: “Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri”. Pasolini aveva subodorato le prerogative medio-borghesi di una larga fetta di quella rivolta. Una protesta contro i padri bacchettoni, contro la società bigotta, la richiesta di una libertà individuale, sessuale, politica. Tutto giusto, ma quei ragazzi oggi sono degli anziani che sentenziano e che non si arrendono al cambio generazionale. In poche parole: sono diventati la proiezione dei loro padri.
Carlo Cottarelli, che comunque faccio fatica a immaginare nel ‘68 con una Stratocaster in fiamme a farsi di LSD nella palestra di una scuola, è arrivato a dire che “Sarebbero stati ancora più credibili se [avessero manifestato] di domenica, non perdendo ore di scuola ed evitando il maggiore inquinamento per il traffico creato”. L’utilità degli scioperi domenicali d’altronde è risaputa. Il punto è che non dovrebbe essere Cottarelli a dire ai giovani come manifestare e perché. Così come forse non dovrebbero essere le vecchie generazioni a indirizzare il destino di questo pianeta, dato che per anni hanno sottovalutato, per non dire ignorato, le questioni ambientali, i rischi dell’inquinamento e del riscaldamento globale. Adesso si scagliano contro chi tenta di avere una visione a lungo termine e non l’egocentrismo dei loro padri. Questo nuovo conflitto generazionale non ha le caratteristiche di quelli del passato, dove gli scontri erano immersi in quel tessuto sociale che creava distinzioni nette: proletariato contro borghesia, operaio contro padrone, ricco contro povero. Oggi la lotta è tra falliti (vecchie generazioni) e condannati (giovani). E il rischio è che possa non vincere nessuno.
L’arma più usata dalle vecchie generazioni è quella della delegittimazione: raffigurare i giovani come una massa di invertebrati inadatti a prendere le redini del pianeta. La tendenza di questi giorni di criticare il diritto di voto ai sedicenni, rientra perfettamente nel timore di perdere potere decisionale, e quindi i minorenni sono stati dipinti come immaturi e inadatti. Eppure nel 2019 non è per niente raro trovare dei sedicenni con una proprietà di linguaggio, una cultura generale e una conoscenza dei meccanismi politici nettamente superiori a tanti sessantenni.
Le vecchie generazioni hanno soprattutto uno svantaggio tecnologico che li porta a ignorare la netiquette, le regole basilari per navigare su Internet senza rischiare una denuncia o rendersi patetici. Di conseguenza sono gli individui più semplici da raggirare attraverso fake news e propaganda di bassa lega. Infatti sono stati proprio gli anziani a rappresentare l’ago della bilancia nelle principali scelte mondiali degli ultimi anni. Per la Brexit e per l’elezione di Trump si è palesato il divario tra giovani e vecchi, con i primi a reclamare più diritti e i secondi a riscoprirsi conservatori e portare il magnate alla Casa Bianca e l’UK verso l’uscita dall’UE. Soltanto il 37% degli under 30 ha votato per Trump, mentre nel Regno Unito, nella fascia tra i 18 e i 24 anni, il 73% ha votato per rimanere nell’UE. Questo però non va bene alla narrazione del sovranismo, dei nazionalismi esasperati e del “prima qualcosa/qualcuno” che imperversa in diverse parti del mondo. Sono quindi loro a temere maggiormente la nuova ondata di giovani pronta a invadere le strade, quei ragazzi che difficilmente trovano una rappresentanza in parlamento ma che stanno iniziando a rappresentarsi da soli. Anche perché le vecchie generazioni non si sono tirate indietro quando si presentavano affari che avrebbero danneggiato l’ambiente; basti pensare alle tangenti Eni, alla cementificazione selvaggia e alle fabbriche della morte che hanno avvelenato intere comunità. L’intenzione dei giovani di diventare autosufficienti, e quindi di non doversi aggrappare al cimitero degli elefanti che li ha preceduti e ai loro giochi sulla pelle del pianeta – senza avere nemmeno quel minimo di lungimiranza necessaria per capire che la pelle del pianeta era la pelle dei loro stessi figli – sarebbe il colpo di grazia per i padri, costretti alla resa di fronte alla superiorità di una generazione sottovalutata, temuta e dileggiata.
Il sociologo Karl Mannheim, in merito all’avvento delle nuove generazioni, diceva che “L’emergere di nuovi uomini comporta la necessità inconsapevole di una nuova selezione, di una revisione nel campo del presente, ci insegna a dimenticare ciò di cui non abbiamo più bisogno, a desiderare ciò che non è stato ancora ottenuto”. Per cui, per ottenere “ciò che non è stato ottenuto”, le vecchie generazioni devono guarire dalla sindrome di Medea e allontanare l’istinto di uccidere i propri figli (attraverso la distruzione del loro futuro). Allo stesso tempo i giovani devono ricordare il monito di George Orwell: “Ogni generazione pensa di essere più intelligente di quella che l’ha preceduta, e più saggia di quella che verrà dopo di lei”.
Le eccezioni, però, non possono che ramificarsi anche in questa diatriba generazionale. Esistono sessantenni in prima linea a lottare per l’ambiente e a incoraggiare i propri figli e nipoti, così come giovani disinteressati al loro stesso futuro. Ma si trattano di mosche bianche da un lato e di pecore nere dall’altro, se le cronache dal mondo continuano a mostrarci il livore di chi ha pensato solo al suo presente ormai andato, al proprio giardino pieno di recinti, e come contraltare chi nutre una nuova speranza che lo porta a farsi sentire. Forse per un po’ continueranno a essere insultati e ridicolizzati, ma a salvare il mondo di questo passo saranno probabilmente loro, i gretini.