Poco più di un mese fa in Grecia si registravano scontri che vedevano contrapposti la polizia da un lato e insegnanti e studenti dall’altro. Questi ultimi manifestavano contro una nuova legge che nel caso fosse approvata prevedrebbe una valutazione periodica per docenti e scuole. Questo caso, in Italia, ha alimentato molte discussioni, soprattutto dopo che il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha firmato l’Atto di indirizzo per il 2022 in cui si legge l’intenzione di “potenziare il sistema di valutazione delle scuole, dei dirigenti scolastici e del personale docente”. La rivista La Tecnica della Scuola ha pubblicato un sondaggio che vede 7 insegnanti su 10 contrari alla valutazione del corpo docenti. Un risultato forse condizionato dal modo generico in cui era stato posto il quesito, ma comunque significativo. Sulla questione è tornato anche lo scrittore e insegnante Enrico Galiano, che ha invece suggerito di riconsiderare la valutazione come occasione “per dar[e] agli insegnanti una mano a fare meglio il [proprio] lavoro”.
Oggi, in Italia, il Sistema di Valutazione Nazionale (SVN) si sviluppa su tre dimensioni: la valutazione delle istituzioni scolastiche, la valutazione della dirigenza scolastica e la valorizzazione del merito professionale dei docenti. Esiste un comitato di valutazione che, insieme al dirigente scolastico, sceglie se confermare o meno in ruolo un insegnante neoassunto al termine dell’anno di prova. Non c’è però una vera e propria modalità di valutazione dell’attività dell’insegnante nel corso della sua carriera. Esistono graduatorie interne per i docenti a tempo indeterminato, mentre per gli insegnanti precari le graduatorie provinciali e d’istituto permettono di avere priorità nella scelta della sede scolastica. In entrambi i casi, la discriminante principale per salire nella graduatoria è l’anzianità: a un maggior numero di anni di servizio corrisponde un maggior punteggio. Qualche punto è poi conseguibile anche con titoli di merito, come dottorati di ricerca, certificazioni, corsi di perfezionamento e master (si parte da un minimo di mezzo punto e si arriva a un massimo di quattro, a fronte di dodici punti per ogni anno di servizio). Non c’è però alcun parametro che entri direttamente nel merito dell’attività di insegnamento del docente in classe.
Per uno Stato, avere un corpo docente di qualità, però, è fondamentale. Un insegnante che manchi di empatia e di competenze educative rischia di non riuscire a svolgere a pieno il proprio ruolo, per non dire che può anche fare grossi danni nei confronti degli studenti con cui si relaziona. Ma valutare un docente in questo senso non è cosa facile. Per comprendere la complessità di questo mestiere basta leggerne il profilo professionale. “Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate e interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica”. Entrare nel merito di ogni singolo aspetto professionale dell’insegnante è quindi abbastanza complesso, e al momento lo è ancor di più “misurare” l’efficacia concreta delle sue competenze.
Vero è che una forma di valutazione preliminare esiste nel reclutamento dei docenti ed è un tema sempre più attuale: la CGIL, pochi mesi fa, parlava di 240mila cattedre assegnate a supplenti, numeri che non sono stati ridimensionati in modo decisivo dai concorsi straordinari dello scorso anno. Per assumere nuovi docenti a tempo indeterminato sono previste, a breve, le prove dei concorsi ordinari i cui bandi sono usciti addirittura nell’estate del 2020 e che dovrebbero essere aggiornati per modificare lo svolgimento concorsuale. Una scelta che renderà le procedure più snelle ma che nei fatti non cambierà in modo radicale il processo di selezione dei docenti. Prima, i candidati dovevano affrontare una prova preselettiva che in 50 minuti metteva gli aspiranti insegnanti di fronte a 50 domande a risposta multipla che vertevano su comprensione del testo, capacità logiche e normativa scolastica. Seguivano poi due prove scritte e una orale. Ora invece si parla di un test con domande a risposta multipla riguardanti la disciplina di insegnamento, seguita da una sola prova orale. In ogni caso, sono due scelte in grado di misurare solo una parte delle capacità richieste a un docente per svolgere il suo lavoro.
Il criterio di ammissione era il possedimento di soli 24 Crediti Formativi Universitari (CFU) negli ambiti della Psicologia dell’educazione, dell’Antropologia culturale, della Pedagogia generale e sociale e delle Metodologie e tecniche didattiche: pochi, e soprattutto ancorati a una dimensione esclusivamente teorica del mestiere. Ne erano esonerati soltanto i docenti con almeno 36 mesi di servizio alla presentazione della domanda: gli unici, tra l’altro, a poter accedere ai concorsi straordinari. I 24 CFU rappresentavano un tentativo di dare una prima infarinatura a chi si avvicinava a questo mestiere, affinché molti insegnanti non entrassero in classe senza una relativa cognizione di causa. Pur cercando di entrare nel merito della professionalità del docente, restava comunque tutto nella dimensione teorica. Per il futuro, però, sembra che questa modalità verrà accantonata.
Nell’atto di indirizzo già citato, il ministro Bianchi ha sottolineato la necessità di rivedere il sistema. “Il tema del reclutamento,” si legge nel documento, “assume una valenza strategica e centrale nell’azione del Ministero. Il fine che si intende perseguire è, infatti, quello di determinare un significativo miglioramento della qualità del sistema educativo del nostro Paese, strettamente legato a un aumento della professionalità del personale scolastico. Per questo motivo, come previsto nel PNRR, il Ministero intende riformare il sistema di reclutamento degli insegnanti per stabilire un nuovo modello, legato a un ripensamento della loro formazione iniziale e della loro carriera”.
Su alcuni siti di settore, come Orizzonte Scuola, si parla di un nuovo sistema per ottenere l’abilitazione all’insegnamento, ottenendo 60 Crediti Formativi Universitari attraverso esami e tirocini in classe. Una soluzione adottata anche per accrescere la consapevolezza degli studenti universitari evitando che la scuola diventi una soluzione di ripiego, ma piuttosto una scelta lucida. Un cambiamento ambizioso di questo tipo richiederà per forza di cose una fase di transizione, in cui ci si dovrà occupare dei numerosi precari storici che già insegnano nelle scuole italiane. Un cambio radicale però è quel che serve a un sistema che non è risultato efficace. Tra l’esigenza professionale e il modo in cui si misurano le capacità dell’insegnante in entrata, infatti, c’è una netta cesura.
Ciò di cui non si sente parlare quasi mai, però, è di una suggestiva proposta emersa ripetutamente negli ultimi anni e portata avanti pubblicamente soprattutto dal filosofo Umberto Galimberti. “Bisogna sottoporre i professori a un test di personalità,” ha infatti dichiarato quest’ultimo nel 2019 in un’intervista con lo psicoterapeuta Luca Mazzucchelli, “Chiunque va a lavorare sostiene dei colloqui, chiunque. Non c’è nessuno che viene assunto a mosca cieca”. E ancora: “Tutti i colloqui sono test di personalità. Nel colloquio devo verificare se una persona è capace di affascinare, è capace di comunicare, è capace di percepire quello che passa non nella testa, ma nella dimensione sentimentale ed emotiva dei suoi ragazzi. Perché non è possibile che quando un ragazzo si butta giù dal quinto piano della scuola i professori dicano: ‘Ma chi l’avrebbe mai detto?’. Perché la prima cosa che mi viene da dire è ‘Ma tu li hai guardati mai in faccia questi studenti qua?’”. Il filosofo lombardo invita a gran voce a mettere al centro della valutazione del docente soprattutto la questione attitudinale.
È complicato coniugare un sistema come quello proposto da Galimberti con la battaglia per la trasparenza nell’amministrazione pubblica che da anni viene condotta dai ministeri italiani. Tuttavia, la proposta del filosofo va letta come un invito a entrare realmente nel merito della professione. Individuare un docente sulla base della sua propensione psicologica per insegnare non può rappresentare un criterio accessorio nella selezione, così come non si può prescindere dalla scelta di un insegnante che, oltre a essere preparato, sia in grado di gestire una classe, di educare e soprattutto crescere i ragazzi non solo da un punto di vista nozionistico. Inoltre, è altrettanto importante verificare periodicamente che un docente sia sempre in grado di avere la lucidità e l’equilibrio necessari per gestire una classe, mantenendosi aggiornato ma, soprattutto, motivato.
Per valutare in maniera efficace gli insegnanti, assisterli nella loro carriera e offrire il miglior servizio possibile agli allievi bisognerà lavorare sugli aspetti più concreti del mestiere, senza mai minimizzare la sua grande complessità. L’impostazione non potrà e non dovrà in alcun caso essere meramente inquisitoria, ma dovrà sostenere e stimolare gli insegnanti in modo da evitare burnout e promuovere la formazione continua e il mettersi in discussione per migliorarsi. Proprio come dovrebbe accadere in classe ogni giorno, lo scopo della valutazione non dovrebbe essere quello di aizzare la competizione o punire ma dare un’opportunità di crescita e consapevolezza. Se ciò non succederà probabilmente il futuro della scuola non sarà positivo.